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giovedì 30 marzo 2023

Infiniti di Piero Varroni, presentato da Mughini, Pierno, Pignotti e Vasta presso la Galleria d’arte moderna di Roma Capitale, 23 marzo 2023


Infiniti è uno dei libri d’artista realizzato nel 2022 da Piero Varroni, artista e curatore delle edizioni EOS. Sulle sue pagine si rincorrono immagini sulle quali scorrono novantanove verbi all’infinito, modo verbale indefinito. Iniziamo dal titolo: Infiniti è un paradosso, poiché coniugato al plurale. Concetto irrappresentabile, ancor di più se considerato sotto l’aspetto della molteplicità, poiché  indicherebbe che ogni infinito può essere considerato una sottoclasse dell’infinito che li contiene, facendo diventare così una sua porzione qualcosa di finito. Paradosso che potremmo estendere al concetto di vita,  per quell’arco di esistenza che si compie dalla nascita alla morte e per la vita infinita che si replica in ogni essere vivente. Sono proprio i due verbi ‘nascere’ e ‘morire’ a iniziare e concludere la narrazione che ha luogo nell’opera Infiniti.  Essi sono inframmezzati da verbi che si riferiscono alle sfere della percezione, del pensiero, dell’emozione. Ogni parola diventa una pausa, richiede una stasi su una voragine. La pagina orienta un’esperienza, la suscita. La parola-boa invita a riflettere; costringe a chiedersi che cosa quel modo indefinito del verbo voglia dire per colui che lo sta recependo, lo sta valutando e soppesando.Tuttavia, va anche indicato che, nell’operazione linguistica in esame, non si tratta di significare qualcosa, quanto di compierla. È la nozione di performativo che ha la meglio su quella di analogia. L’immagine-sfondo è anch’essa un paradosso, poiché è chiamata a rappresentare un infinito, tutto giocato sulle variazioni. Uno sfondo senza margini, privo di centro, che appare motile, trascorrente, grazie ai pigmenti che si mescolano indefinitamente. Dico immagine-sfondo, perché essa è anche il fondale sul quale sono scritte le parole ed è uno sfondo d’assenza. Su tale sfondo le parole sono segni che si dislocano sulla griglia della pagina secondo un ordine spaziale; non sintattico, ma mallarmeano.

Infiniti impone, dunque, una procedura temporalizzata in più fasi; il tempo della visione e il tempo della riflessione sul significato di ciascuna parola. Si tratta però di un processo pur se si costituisce in un libro, ossia in uno specifico medium, non deve tentarci dal trarne una sintesi unitaria, ossia una descrizione sincronica. Vi sono, appunto, tempi differenziati. Il tempo della visualizzazione, con l’occhio che vagola sulla superficie, fermandosi a ogni evento, e quello lettura della parola, con il suo nero peso che sfonda la profondità semantica. Due tempi, che, nella sequenza delle pagine, si ammagliano e si stringono in una catena indissolubile: la divisione si cicatrizza e la ferita si riapre. L’indiscernibile colore del luogo circostante, quando si visualizza l’annerita parola; la percezione della parola come dettaglio visivo, quando si osserva l’immagine colorata. Il fruitore percepisce che verbale e visivo coesistono senza fondersi e, a tratti, invece, paiono fusi insieme, in un processo inestinguibile.

La simmetria creata dalle forme pigmentali ottenute ripiegando il foglio, prima che l’inchiostro si sia asciugato, determina più facilmente la visualizzazione analogica di figure organiche (somiglianti a una colonna vertebrale e a una libellula con le sue vitree ali, comprese tutte le figure intermedie che si generano fra questi due estremi): non a caso sono le pagine che recano le parole ‘esistere’, ‘essere’, ‘vivere’, ‘abitare’, ‘camminare’. Via via che si procede nella lettura, le parole subiscono una simmetria inversa nel senso che esse si allontanano sempre di più in senso verticale, oppure si avvicinano, equilibrandosi come sui due piatti di una bilancia. Il demone dell’analogia, pertanto, riaffiora a ogni foglio, mostrando la sua potenza genealogica di memoria sprizzante con la forza di un fiotto d’acqua. Tale libro si oppone al concetto di monade, se è vero che ogni pagina presenta un atomo di significazione e di figuratività insieme. Tuttavia le pagine non sono scollegabili e il senso prolifera dal loro susseguirsi. Appare maggiormente adeguato al presente libro d’artista fare riferimento a un pensiero visivo che sovrasti e inglobi l’intero costrutto verbale e visivo. 

Nella pagina si assiste a transiti illusionistici tra tonalità di colore: dalla tinta del foglio, che costruisce il fondo del pozzo, ma appartenente a un regime diurno col suo bianco accecante, irruttivo, fino all’ultima superficie stesa sugli strati precedenti, per converso, quasi una stratificazione notturna. Occhielli e fenditure si aprono tra le differenti stesure: tra la soggiacenza del bianco che si coglie attraverso le smagliature del colore sovrastante e le velature completamente coprenti del grigio-notte, che come bende occludono qualsiasi ferita. Solo alcune tenui labilità traspaiono, ma quasi per il gioco della mente che conosce le precedenti pagine e lacera lo strato che occlude, mentre l’ombreggiatura atmosferica invade e acceca; obnubila, e getta la sua sinistra ombra sulle parole già nere. L’ultimo strato di pigmento presenta la sovrimpressione di elementi che vi hanno lasciato orme, tratteggi, brani di lettere alfabetiche. Come a dire che la parvenza della scrittura si insedia anche laddove non ce lo si aspetterebbe. Sicché vari sono gli avvenimenti di tali superfici sovrapposte: non vi è semplicemente un trattamento del piano che lo sguardo incontra, ma si tratta delle qualità che attraversano le superfici, che le infilzano e, con un colpo di coda, le squarciano.

La divisione tra aspetto materico del lavoro ed effetto cromatico fa sentire la sua concretezza. Se la trasparenza inerisce anche alla carta, alla sua porosa, spugnosa consistenza, nel gioco delle parvenze, anche i colori si compenetrano e si riflettono l’uno nell’altro pervenendo all’inconsistenza. Trapassi cromatici sorpresi attraverso un diafano dedalo di minimi rilievi. L’ultima stesura ha l’effetto di una cancellazione della luminosità nascosta, interna, anziché proveniente dall’esterno dell’opera. Si vede la superficie della carta non coincidere con il suo rivestimento cromatico. Il colore non è depositato sulla superficie cartacea, ma effettua un gioco sui limiti delle diverse stesure, facendole vacillare nello spazio e scivolare di piano in piano. La superficie coincide con il rivestimento della pagina, ma il visibile emana bagliori fin dalla originaria nudità della carta. 

Il pigmento disciolto nell’acqua impregna le barbe della carta, rendendo instabile il confine delle forme e creando una figura inquieta, agitata dalla successione delle velature. La pagina, sottoposta a piegatura, serrata in un fascio di altre pagine, si moltiplica in un abisso di visioni, sempre diverse, eppure prive di soluzione di continuità. Le pagine accolgono le colature di colore, che, aperte e richiuse, in fase di realizzazione, producono un ordine nel disordine. Quando occhielli si slargano, si scorgono i colori sottostanti e persino il candore della pagina; si notano sovrimpressioni di bianco puntinate che fingono i colori dei primi strati, ma in realtà costituiscono l’ultimo strato pigmentale. Vi sono pieghe mimate dal colore che sembrano bende. Tasche sono evocate dalla campitura di un grigio più chiaro, il quale non ricopre in maniera omogenea, ma lascia striature. In altre pagine, le asole restano azzurre. Il grigio si presenta, dunque, come un vestito elastico con fori oblunghi. ‘Conoscere’, ‘diventare’, le parole non sono neutre. Le lacune sono riempite con un grigio più scuro, che appare come una cicatrizzazione della texture ferrosa. Si riconoscono i punti dell’inchiostro e lo spennellamento del colore in altre aeree: l’intera liquida superficie si muove sotto lo sguardo. Lo sfondo oscilla per dare un senso alla variazione semantica delle parole: ‘cercare’, ‘comprendere’, ‘divenire, ‘appartenere’: anch’esse variano impercettibilmente; lo scarto, dunque, sembra minimo sia nell’immagine sia nel significato delle parole. Fra ‘scrivere’ e ‘segnare’ si apre uno iato che ingloba l’immagine. Mentre tra ‘decidere’ e ‘scegliere’ la sinonimia non segnala differenze di grado semantico, né, pertanto visive. Tra ‘parlare’ e ‘tacere’ c’è la massima distanza possibile.

La penna circoscrive le piccole aiuole d’inchiostro fiorito, crea organismi con mobilissime ciglia, ovuli, la cui chiusura con l’ambiente è apparente, osmotica. Verbi più condivisibili come ‘divertire’, ‘sognare’, ‘permettere’, ‘aiutare’ determinano l’accentuazione delle aperture che lasciano respirare il luminoso azzurro che sgorga dai cirri del colore. 
La parola manoscritta indirizza verso una interpretazione biografica, ma è la biografia di un essere umano con valore universale.


                                                                                           Rosa Pierno




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