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domenica 31 luglio 2016

Davide Cortese su "erbaluce" di Francesca Moccia, Edizioni l'Arca Felice



Massimo Dagnino, Pipistrello-vampiro genera anatomia, matita su carta 2014


L’esperienza compositiva della plaquette ‘erbaluce’ di Francesca Moccia (Edizioni l’Arca Felice; collana “Coincidenze”) si configura come un transito di elementi dalla realtà, vissuta direttamente o attraverso altri, al linguaggio, in «una sottile lesione di pronuncia»: i materiali che compongono le liriche, esclusivamente d’amore, grazie ad una limitata e definita gestazione, si dispongono per permeazione, come di «Mani in adiacenza», dove il «filamento rotto» del vissuto viene restituito, nel testo, con un’acquisizione di connotazioni, che rivela una nuova «densità (…) del nome».
Il controllo del  travaso, operato da un «cuore isolato dal senso», è tentato nella forma: i potenti enjambement («L’acqua quando cade/ riempie la tua bocca era/ sera fino a  poco fa e il/ buio accade ora nel cielo») inseguono gli scarti emotivi e metaforici generando però, a loro volta, un’altra «figura» che continuamente «scema(...)/ nella tasca del bosco».
I disegni, e la foto, come tavola esterna, di Massimo Dagnino, con il loro proprio linguaggio, lavorano vicino ai testi, fino a quasi intrecciarsi. Lo sguardo da luogo a una relazione, dove pezzi di corpo e scenari, come quello della «Spiaggia di Voltri», entrano in contatto generando un «Anatomopaesaggio»: zona franca, entro cui gli elementi, compenetrati, si rendono in una forma, in una natura, sempre in divenire.

Il sentimento amoroso, durante il corso dell’opera, subisce continue fluttuazioni di ruolo.
Declinandosi come minaccia («lunghe onde erano venute/ a lambire cuore e sangue») o presenza rassicurante («Un mare profondo,/ insiste per scaldare») e nonostante una fitta di parole ricorrenti sembrino incarnarlo resiste a una “decifrazione lineare”: rimanendo, piuttosto, come dice Maurizio Cucchi nell’introduzione, una “sostanza”  che “sorregge l’intero, misterioso percorso di ogni singolo testo”.
Nei confronti dell’amore, l’autrice, non si pone frontalmente, ma, agisce in maniera laterale: arretrando quasi sullo sfondo «le onde del mare», il resto della poesia si concentra verso l’ambiguo di una «terra salmastra» o di un «crepuscolo», dove «l’emozione scissa dalla pianura» mette in luce i processi nascosti («i miei passi dimenticati), che compongono l’amore, o  lo mettono in atto.
Elemento, esso stesso, di transizione, e attore nei luoghi di «acqua fra sabbia e terra», il motivo del ‘risveglio’ si riverbera tra la pagine. Il momento in cui si passa dal sonno, durante il quale si è «fibra bianca», pura potenza, alla veglia, quando si dovrà assumere una forma, la propria, costringe all’acquisizione di un limite, di un’identità, che espone al rapporto con il mondo, con l’altro e con l’amore.

«L’alba», allora, è «una ragnatela/ divina che imprigiona l’anima»: la presenza «scatena la caccia», «la preda» che la subisce «ansima in cerca di vita».
Lo sdoppiarsi della voce, da femminile a maschile («ridotto, ferito/ chiudo la strada»; «disteso immobile sulla sabbia/(…) fingevo») è il concretizzarsi del tentativo di fuga, ma che al termine della «corsa del treno» porta verso «nessun indirizzo» si rimane, soltanto, una «figura irta» imprigionata «come un porcospino su un foglio bianco».

                                                                                                     Davide Cortese


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