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lunedì 28 aprile 2025

Aldo Bandinelli Spostamenti, Andante Books, Port Townsend, USA 2021


 

L’osservazione raffinatissima della realtà, della sua materialità, la valutazione estetica degli accadimenti, le percezioni a cascata, le impressioni cesellate e la disposizione a ordinare l’effervescente e rigogliosa messe di sensazioni producono pur tuttavia un disegno unitario. I racconti che compongono Spostamenti, Andante Books, Port Townsend, USA 2021, di Aldo Bandinelli, sono coesi, fluidi, senza soluzioni di continuità. Il dato frammentato ha uno svolgimento di tipo frattale, andando a formalizzare una visione nitida e chiara. Le apparenze, instabili, indefinite, oscillanti assumono una forma altamente definita. Qualsiasi dato, esattamente come avviene in un puzzle, viene identificato e collocato in qualcosa che se è mondo, alfine, non somiglia più al mondo. Potrebbe essere questa una delle possibili definizioni dell’arte. E Bandinelli, oltre che scrittore e poeta, è anche artista.

Ma non si tratta soltanto di distanziare la creazione dalla copia, perché prima ancora c’è un’altra distinzione più urgente da rilevare: la percezione non avviene a ridosso della realtà. La nostra mente ci inganna totalmente su quale sia la realtà del mondo (i colori e i suoni, ad esempio, non esistono nella realtà). A ogni buon conto, l’autore si avvale di una estenuata osservazione dei fenomeni per essere sicuro di aver captato tutto quanto si poteva con i pur limitati ricettori sensoriali che l’essere umano ha a disposizione. Nondimeno, esiste un’ulteriore sfera, un secondo stadio oltre il piano dell’elaborazione mentale: non si sa in anticipo, quando ci si accinge a scrivere, quale forma assumerà il raccolto sensoriale nel passaggio al piano dell’espressione linguistica. Bandinelli è perfettamente consapevole della coincidenza dell’espressione letteraria con la finzione e, pertanto, ben conosce che in palio non è la verità della realtà. Una conferma la offre, appunto, l’autore stesso, dichiarando che accumula ogni più impercettibile disposizione, sfumatura, ombra, intonazione o dubbio in un elenco ordinato, che redige daccapo ogni giorno. In tal modo, «ricomponendo ogni particolare in una nuova conformazione», egli sostituisce la precedente configurazione e ricomincia il processo di analisi e valutazione. Le acquisizioni vengono aggiornate e ciò dà conto della cangiante mutevolezza del sistema, ma tale portato conoscitivo è ancora definibile come processo unitario, non fosse altro perché univoco è il punto di vista soggettivo, sontuosamente accentuato, e il metodo, apertamente denunciato. Intanto, il linguaggio avvolge con le sue spire la congerie delle elaborazioni restituendo una sorta di ologramma, solo virtualmente tridimensionale.

Nel racconto Giro del mondo, le proposizioni vengono interrotte: un secondo flusso linguistico si sovrappone al primo senza apparentemente entrare in osmosi con il piano che registra le percezioni, come se la memoria dei viaggi effettuati s’innestasse senza confondersi con il piano di ricezione del presente. Se l’apertura delle parentesi e un carattere tipografico di minor corpo sono le marche che consentono al lettore di individuare lo stacco, pure, le frasi potrebbero ancora sembrare la continuazione le une delle altre. E, anzi, possono anche essere lette così. Sappiamo perciò di muoverci nel mentale, nel senso che la realtà non è più in gioco, e che i piani vi appaiono distinti, perché altrimenti confonderemmo la realtà percepita con la realtà immagazzinata nella memoria. Nondimeno, nel linguaggio, decade la possibilità di distinguere tra presenze e assenze, ossia tra la realtà «nella sua concretezza, solida, stabile e incontrovertibile» e i fantasmi. Se qui non intendo far riferimento alla vita che si confonde col sogno, non  oso però nemmeno dire che sogno e vita siano radicalmente diversi. Si apre una zona incognita, mobile, priva di verità e «indecifrabile», ma che non per questo è da espungere dalle mappe. Il linguaggio è una riduzione del percepito, ma è il filtro linguistico stesso ad attivare il la segnalazione delle terre impervie; segni di cui, anziché considerare la limitatezza, Aldo Bandinelli magnifica la funzione. Non a caso l’autore presenta già nel secondo racconto, Il Saltatore, la questione relativa all’impasse che spesso si prova quando non si sa nettamente distinguere tra percezione e ricordo e a questo proposito si rivolge alle risorse scritturali per stabilire la distinzione. «Forse» è l’avverbio di dubbio che segnala l’indecisione e che, cadendo in mille pieghe, ha l’estensione di un eterno irrisolto presente, ma anche di una precisissima mappa. Qui le intersezioni linguistiche assumono una veste ancor più astratta «come vertigine d’alto bordo, forse, o incantevole vista mozzafiato oppure inopportuna caduta di stile o raggiunge davvero un basso livello, o, è proprio uno schianto. Forse ha perso una scarpa e ha sentito il pavimento tremare con forza e diventare rovente». Ciò costringe, appunto, il lettore a rendersi conto dell’astrazione del linguaggio, in contrapposizione alla potenza immaginativa della mente. Quasi una contraddizione si disegna, dunque, tra la concettualità dei vocaboli e la loro capacità di farsi portavoce della ricchezza percettiva e inventiva, la quale si palesa mediante la funzione metaforica che in parte risolleva il linguaggio rendendolo più duttile, aperto e ambiguo. Tale divaricazione, presentissima, è come un fiume carsico: si sente l’acqua scorrere senza di fatto vederla ed è una connotazione originalissima dello stile di Bandinelli.


Altrettanto straordinario, nel racconto Genitore e Figlio, è l’affidare a nomi astratti, Genitore, Figlio, Zio, Morto, Cugina, Vedova, il trasporto psicologico di personalità puntuali e concretissime. Con una costante divergenza tra le dramatis personae e i loro comportamenti (sguardi, sorrisi, brancolamenti), tra i ruoli tratti da gerarchie familiari e la realtà imponderabile delle loro individualità si dipana un gioco irrisolvibile.

Il lessico, aderente ai minimi dettagli per meglio servire la complessità di ciò che liquidiamo sbrigativamente come reale, ricorda immancabilmente il partito preso delle percezioni nella splendida prosa di T. Mann nel Tonio Kröger. Lo svolgimento prosastico, intanto, si avvolge intorno a impercettibili sensazioni fisiche che assurgono a indizi di drammatica gravità, con un movimento a tratti disgressivo e annidato che mena il lettore, senza tergiversamenti, verso le radici della propria precarietà percettiva ed esistenziale. È così che leggere vuol dire imparare, incontrare la propria realtà come fosse nuova, inveduta.


Catene aggettivali, fino a quattro occorrenze, nel racconto Deserto. Tre didascalie per una foto, provvedono alla descrizione degli oggetti, dei paesaggi, delle condizioni meteorologiche. La luce riflessa in ogni dove si ripercuote a sua volta in un inesausto affiorare di colori, sempre tenuti al guinzaglio da un lessico esatto, rigoroso, accurato,  quasi a mostrare la consuetudine dell’autore/artista, con siffatto indomabile Minotauro. L’horror vacui manifestato da Bandinelli prende la forma dell’enciclopedia, entro la quale ogni cosa viene collocata al fine di porre un freno all’altrimenti ingestibile ammasso. Il linguaggio autoriale, plastico, si avvale dell’estensione prolungata delle proposizioni, spesso incatenate tra loro in paratassi o  declinate in liste che, certamente, se tassellano la pagina, spingono ai margini una altrettanto evidente tendenza alla dispersione. Fuori dal recinto è stato risospinto il vuoto e il lettore può percepirne, quasi visivamente, l’ingombro: non gli si lascia mai la libertà di dimenticarne la presenza.


La sequenza dei racconti è intermezzata da Seulement, sette disegni a tempera su carta, i quali testimoniano della necessità di Aldo Bandinelli di esprimersi anche con mezzi grafici. La loro posizione centrale, senz’altra segnatura, pone, a parere dell’autore, la loro equivalenza con i testi, spingendo il fruitore delle opere ad accogliere le due forme espressive come un’ennesima variazione su tema della personalità creatrice. Si constata, ancora una volta, che il dirupato cammino tra mente che disegna e mente che scrive, se è insondabile, non da meno è meritorio di essere investigato, ancorché sia impossibile tra essi un percorso non problematico.


                                                                                 Rosa Pierno




martedì 14 gennaio 2025

Marco Furia su “Bagatelle” di Rosa Pierno, Trasversale, 2019


 

Opposti concetti?


“Bagatelle”, di Rosa Pierno, si presenta quale raccolta d’intense, brevi, prose in cui l’autrice propone tratti linguistici introdotti da titoli composti ciascuno da un concetto e dal suo contrario.

Leggo, per esempio, da “Ripetizione/Variazione”:


“La ripetizione è tollerabile nella variazione e la variazione è sopportabile nella ripetizione”


e da “Stabilità/Instabilità”:


“Se la successione degli eventi si manifesta senza interruzioni o salti, non si deve per questo pensare che l’instabilità non operi al di sotto della superficie”.


Bene, un’ indagine “al di sotto della superficie” mi sembra in generale peculiare oggetto di questa scrittura: la parola può aggiungere o togliere qualcosa a chi la scrive come a chi la legge.

Poiché un’interpretazione autentica non può esistere, non resta che suggerire tratti, immagini, aspetti ponendo in essere non tanto un racconto quanto ambiti, circostanze.

Circostanze poetiche, quelle di “Bagatelle”, capaci di creare feconde sorprese e meraviglie.


Leggo da “Connesso/Sconnesso”:


“Nuove relazioni, le quali s’intrecciano e si sciolgono, sottolineano i punti periferici, deprimono quelli centrali, s’allumano e si smorzano senza spegnersi. Nel loro libero gioco, il senso si ricompone continuamente e forma rivoli. A volte, però, evapora e non si sa come motivare l’accaduto”.


Un “senso” che “si ricompone continuamente” e liberamente è immagine quasi caleidoscopica in grado di richiamare l’intima natura della scrittura, modo d’essere di chi scrive o legge non assoggettabile a definitive spiegazioni.

Siamo al cospetto di un’espressione linguistica che allude a sé stessa e nel medesimo tempo al resto del mondo secondo dicotomie rappresentate, del resto, dai titoli delle singole brevi prose.

Emerge, davvero, un’indomita propensione a comunicare per via di parola nella consapevolezza di come il dire presenti molteplici, spesso inaspettati aspetti:


“Il senso aveva avuto modo di incrostarsi sulla roccia delle occorrenze e delle ripetizioni, donando spessore a deboli accadimenti, pertanto, ora, a giochi fatti, non si può omettere o ricominciare come se nulla fosse stato”.


Gli attenti, precisissimi, tratti di Rosa illuminano incrostazioni, “occorrenze e ripetizioni”, ben consci di come il piccolo e il grande, il generale e lo specifico, non siano che diversi aspetti (a ben vedere nemmeno poi così opposti) dell’umano atteggiamento comunicativo.

Appare quanto mai consona, perciò, la suggestiva immagine di copertina (opera della stessa autrice) in cui un misterioso linguaggio, fatto di segni forse ancestrali o forse provenienti da altri mondi, emana un enigmatico senso che riesce a catturare lo sguardo e a trattenerlo.

A trattenerlo per l’infinito istante d’uno specifico esistere.


                                                                                         Marco Furia



Rosa Pierno,“Bagatelle”, Trasversale, 2019