Le opere di Pierluigi Isola appartengono alla tradizione pittorica che da Poussin e dai vedutisti ottocenteschi giunge a permeare una parte, esigua ma significativa, della pittura nel primo Novecento. Piero Guccione, suo insegnante al liceo artistico, scrive che l’arte, pur essendo finzione, eleva il suo regno d’ambiguità al realismo fattuale di ogni sperimentazione che nell’arte, appunto, si compie. Appare importante sottolineare che Isola inserisce nella sua pittura elementi che rendono tali verifiche iperboliche. Nell’opera Pomeriggio a piazza Cavour (olio su tela, 2006), la dorata luce pomeridiana avvolge gli ultimi piani di un palazzo ottocentesco, le strisce pedonali ripetono astrattamente l’ordinamento ritmico delle colonne della facciata, mentre una lingua di sole illumina parzialmente il fondo stradale di bruto asfalto e l’ombra vi disegna una enigmatica porta che si apre. Non passa nessuno per la via. Forse un pomeriggio d’estate o la citazione di una caratteristica della pittura metafisica. La scena rappresentata è quella di una città museo, visto che sulla parete del palazzo d’angolo si può ammirare un quadro quattrocentesco che rappresenta San Sebastiano. Il quadro attinge a luoghi mnemonici, sorta di caselle ove sono posizionati i tesori che non debbono andare dispersi. Ma la memoria convoca imperiosamente altre immagini in relazioni a quelle indicate; esse vengono suscitate provocando un affollamento visivo. La Sinagoga vista dal Campidoglio (tecnica mista su carta, 2006) non può essere disgiunta dal ricordo delle opere di Corot o Valenciennes. Ciò non accade a cagione di un immagine che, anziché essere prelevata dal vero, è tratta da un repertorio figurativo precedente, dacché sono stati espulsi tutti gli elementi che connotano oramai le città moderne (dalle antenne ai fili elettrici). Persiste quel timbro di luce che s’indora vieppiù sulle pietre tufacee: nella suddetta opera è Jones il nuovo invitato e la luce è quella eterna di Roma. Vera sempre, non modificabile, ma qui come presa all’amo e deposta con mille cautele ed attenzioni sul foglio. È quel che accade anche in Verso il tramonto sulla strada del Sasso (tecnica mista su carta, 2006), quando la mente, nell’osservare l’opera, viene attraversata dai colori e dalle forme di Giotto, del Perugino, fino a infilzare i paesaggisti inglesi della fine dell’Ottocento. Dove sarà intervenuto il cambiamento e, soprattutto, ce n’è davvero bisogno? Non sarà che quell’idea invasiva dei romantici, della novità come esigenza indeponibile in arte, abbia guastato e distrutto la possibilità del lento evolversi delle forme espressive? Fare un passo indietro offre, in questo caso, una maggiore visibilità: l’orizzonte appare curvo, non troppo prossimo e limitato. Ciò detto, Pierluigi Isola non è uomo che non ami i contrasti. Il catalogo della mostra Terre d’ombra, Galleria Falteri, Firenze, 2007, è interessante anche perché riporta alcune considerazioni dell’artista; ad esempio, quelle riguardanti la lotta tra luce e oscurità, ove l’estenuarsi del giorno rende massimamente intenso l’azzurro del cielo o il colore delle cose, ritardando l’avvento dell’oscurità. Il catalogo, che si dipana tra opere e annotazioni dell’artista, riporta alla mente il testo di Cozen sullo studio degli effetti luminosi e delle macchie; tuttavia, nei quadri di Isola, il cielo è sempre sereno, le masse sono portentose, hanno il peso dei macigni, pur trovando una miracolosa compensazione negli inserti geometrici, nei poligoni regolari che la luce disegna. Si vedano, a tal proposito, Pini a Ostia Antica (olio su tavola, 2006) e Lungotevere in Augusta (olio su tavola, 2007). Isola non trascura la composizione né gli oggetti rappresentati; certamente li fa colloquiare con astrazioni geometriche che lanciano l’opera verso destini speculativi. Ciò nonostante, l’artista apre un contenzioso tra elemento naturale ed elemento geometrico, nel quale la loro differenza si assottiglia. L’asserzione che in natura non si dà linea o punto o cerchio viene fatta traballare, viene scossa. La predilezione espressa è quella di una prossimità della natura e della geometria che, a tratti, si riduce fino alla coincidenza. La mente umana trasforma il dato naturale, astraendo. Si tratta di una natura che senza l’uomo non sarebbe rappresentata e, certamente, la natura come la conosciamo è il risultato di un’elaborazione mentale, ma nell’arte si tratta anche sempre di una formalizzazione che presenta molteplici livelli di senso. Nel disegno Rovine circolari #1 (tecnica mista su carta, 2006), la trasparenza dei colori di ascendenza cézanniana induce a comprendere la stratificazione che si attua nelle opere di Isola e la conseguente e necessaria azione di riconoscimento che esse richiedono al lettore per essere correttamente intese. Senza questo passaggio a ritroso, non si dà spinta in avanti. È nelle risorse dell’arte la possibilità di agganciare un tempo che sia afferrato nella sua profondità prospettica e presentato su un solo piano. Da una nota dell’artista si evince che egli è alla costante ricerca di una soglia, di un limite tra cose eterogenee, come può esserlo il passaggio da un tempo a un altro, dal reale al mentale, dal visibile all’invisibile. Sovente, Isola istituisce un dialogo tra ombra e luce, tra cose che c’erano ieri e ancor oggi persistono, oppure che si presentano in compagnia di elementi contemporanei innestati in un paesaggio altrimenti non caratterizzato cronologicamente. Ma le opere di Pierluigi Isola sono anche un inno alla mirabile mente umana che può vedere non solo quello che è reale, ma anche quello che ricorda. L’artista nomina la nostalgia, ma essa è piuttosto una condizione desiderante.
Tali soglie non sono prese nel medesimo vorticare turneriano, nel quale non si distinguono più i confini degli elementi naturali, con gli oggetti squassati dalla furia degli elementi o dispersi nello sfarinìo lucoroso. In Isola i contorni appaiono spesso netti; taglienti, se presi nel dominio dell’astrazione, oppure morbidi e stondati, se appartenenti al dominio organico. Luce e ombra sfaldano o assemblano. Non vi è una gerarchia relativa alla concretezza fisica; le architetture, le chiome arboree, i dossi e i canali sono ugualmente disegnati dai gradienti della visibilità, tuttavia, non si dissolvono mai.
Il rapporto che il primo piano instaura con gli elementi retrostanti della composizione è usato da Isola per disporre, sulla superficie più vicina allo spettatore, ma non per questo maggiormente definita, segni, lettere, tracce di un’iscrizione. È quanto si osserva, ad esempio, in Dalla spiaggia di Vendicari (olio su tavola, 2006), ove il primo piano del paesaggio campestre appare come luogo di iscrizione di un segno, più che la rappresentazione di un dato naturale: gli steli di gramigna sembrano mimare una scrittura. Al pari del rapporto tra natura e geometria, di cui scrivevo prima, anche quello tra iscrizione e architettura passa attraverso un medesimo imbuto, poiché vi è tra esse una forte prossimità, anche se non si estingue mai in una completa coincidenza. Come la scrittura, anche l’architettura è un prodotto umano. Pierluigi Isola pone in luce le forme nella loro diversità strutturale, evidenziando il particolare rapporto tra senso e significante che si genera ogni volta nella specificità delle forme espressive.
Ritornando al tempo non segnato, sgorgante dalle opere di Isola, cito a titolo esemplificativo il quadro Il Tevere a Ponte Garibaldi (olio su tela, 2007), nel quale i diversi stati della materia sono restituiti nella luce pomeridiana che polverizza le sostanze in un pulviscolo d’oro, finendo con l’annullare anche i diversi istanti del reale. Davvero il reale non è mentale? Si direbbe proprio di sì, dinanzi a questa cartina di tornasole.
Rosa Pierno
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