Il nuovo libro di poesie di Stefano Iori, Il tocco dell’ignoto, peQuod, Ancona, 2023, si dipana tra poesia e filosofia. Il libro infatti si compone di poesie e testi filosofici, ma il poeta non percorre campi mediani, nel senso che non effettua tra loro una sintesi e non ne scarta le differenze; piuttosto esegue un’interpolazione dei due estremi, ossia li collega e conserva entrambe le esperienze con i loro dettagli. È come se il poeta stringesse assieme le due forme del poetare e del filosofare, costringendole a procedere sempre unite, a tenere tutto l’orizzonte del possibile in una linea, non omogenea, naturalmente, in forza della specificità delle due risorse creative, eppure continua. Lo straordinario apporto di codesta scelta, creativa a tutti gli effetti, consiste nel fatto che non scompare l’abisso tra le due forme espressive; tuttavia, esse sono ritenute inscindibili anche dal lettore. Per poter ottenere tale risultato occorre affondare le mani nell’immaginazione e nella meraviglia, che sono gli ingredienti necessari e sufficienti. Nell’attuale fase storica, con la perdita di quelle certezze che implicano un ambiente stabile per l’essere umano, l’illusione diviene strumento di speranza e desiderio, si trasforma in un beneficio, facendo emergere il pensiero dalle acque stagne degli schemi preconfezionati. L’illusione è la risposta al tocco dell’ignoto. Il tocco dell’ignoto è forse qualcosa che ci sfiora dall’esterno, come i primi chiarori e i suoni sinestetici che sono latori, dopo la prima morte, di un’attenzione risvegliata, da che eravamo in letargo mentale e percettivo. Essere presenti alla vita è indispensabile per attingere all’oltre che ci riguarda.
La “forma non forma” si manifesta, appunto, al di fuori del quadro consueto, delle aspettative preformate. La nostra mente è capace di risorse inaudite, quando si abbia il coraggio di uscire allo scoperto. Se ci lasciamo toccare dall’ignoto, siamo infatti in grado di ascoltare l’inudibile. Il silenzio coincide con il momento estatico, in cui “il soggetto si perde nell’oggetto” e non vi è più nulla da percepire. La poesia è forse l’unica forma espressiva che riesca a cogliere il nulla nelle sue forme: “regala luce carpita alla primavera”, “s’acquatta / nei buchi di vento”, è la “fiamma senza luce / di un (d)io evaporato”.
Mai come in queste poesie ci sembra di cogliere la trasfigurazione del reale che trapassa dall’immanenza soggetta al degrado all’instabilità; dall’insensatezza all’eterno, in cui agiscono ancora i dati percettivi, ma come transustanziati. Si traghetta da una realtà storica a una realtà poetica. Dunque, Iori non intende affatto liberarsi dalla percezione, ma la usa per modulare il “senso in forma di rosa”.
Poesia e filosofia sono, per Stefano Iori, “forme del dialogo” con l’ignoto. Esse si illuminano a vicenda nell'atto di relazionarsi col nulla: “attorno vibra / un riflesso / d’improvvisa forma”. È la forma-non forma di cui scrivevamo in precedenza, quella forma estensibile che accoglie, svuotando se stessa.
Per sua natura, il pensiero è contraddittorio, parziale e mentre definisce accumula scarti, non riuscendo a integrarli nelle sue definizioni concettuali. Tuttavia, si può ottenere proprio attraverso il pensiero un’apertura basata non sulle definizioni, ma sull’accoglienza degli estremi, ove luce e ombra, bene e male abbiano un “ritmo altalenante”, non espulsivo della controparte.
Se da una parte la poesia apre il varco, dà la possibilità di vedere al di là di esso, dall’altra, la filosofia, legata al dubbio e alla meraviglia, regala la cognizione di non sapere. Dunque disporsi tra filosofia e poesia consentirà di sostare tra la meraviglia e il momento estatico, entrambe intensità irrinunciabili e complementari: vero e propria “onda di pensiero / filante in prodigio”. Tutto vi appare già smaterializzato e in grado di arricchirsi dell’essenza di entrambi i modi, quelli del pensiero e quelli del sentire. Si è così al cospetto di una poesia e di una filosofia impegnate ad accogliere la realtà e l’irrealtà, il noto e l’ignoto, il finito e l’infinito e pur anche il senso e il non-senso, in quella che è, di fatto, una trasformazione concretissima del nostro stare al mondo.
Si piega in fumo
il mito rigonfio
della padronanza
Il vizio di sapere
tace con garbo
nell’atto della muta
Ma c’è un rapporto particolare che lega la poesia al momento estatico, a quell’affidare il meglio di sé al divenire altro. La poesia è un fare che giunge fino alla “dismisura dell’invenzione” e in questo senso possiamo avanzare l’ipotesi che la meraviglia generata dalla poesia non sia legata al dubbio filosofico, ma che costituisca l’approdo a una coscienza diversa, che in maniera differente ritorni nell’“infinibile”. D’altronde, ogni onda nuova è ancora un mondo incompiuto.
Non vi è una risposta univoca a un quesito. La poesia stessa “muove risposte senza pretesa di verità”. La molteplicità delle soluzioni si colloca sulla spirale del tempo umano. Nessun risposta giunge dal Dio silenzioso che si sottrae e che, nondimeno, non lascia che, nell’umile resa, qualcuno resti privo del suo vortice, del “ritmo che verrà”. Per questo ci piace chiudere con un verso di Stefano Iori:
“Lottare con l’enigma / è ripido incanto”.
Rosa Pierno