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martedì 30 maggio 2023

Stefano Iori “Il tocco dell’ignoto” peQuod, Ancona, 2023. Con una nota introduttiva di Flavio Ermini

 


Il nuovo libro di poesie di Stefano Iori, Il tocco dell’ignoto, peQuod, Ancona, 2023, si dipana tra poesia e filosofia. Il libro infatti si compone di poesie e testi filosofici, ma il poeta non percorre campi mediani, nel senso che non effettua tra loro una sintesi e non ne scarta le differenze; piuttosto esegue un’interpolazione dei due estremi, ossia li collega e conserva entrambe le esperienze con i loro dettagli. È come se il poeta stringesse assieme le due forme del poetare e del filosofare, costringendole a procedere sempre unite, a tenere tutto l’orizzonte del possibile in una linea, non omogenea, naturalmente, in forza della specificità delle due risorse creative, eppure continua. Lo straordinario apporto di codesta scelta, creativa a tutti gli effetti, consiste nel fatto che non scompare l’abisso tra le due forme espressive; tuttavia, esse sono ritenute inscindibili anche dal lettore. Per poter ottenere tale risultato occorre affondare le mani nell’immaginazione e nella meraviglia, che sono gli ingredienti necessari e sufficienti. Nell’attuale fase storica, con la perdita di quelle certezze che implicano un ambiente stabile per l’essere umano, l’illusione diviene strumento di speranza e desiderio, si trasforma in un beneficio, facendo emergere il pensiero dalle acque stagne degli schemi preconfezionati. L’illusione è la risposta al tocco dell’ignoto. Il tocco dell’ignoto è forse qualcosa che ci sfiora dall’esterno, come i primi chiarori e i suoni sinestetici che sono latori, dopo la prima morte, di un’attenzione risvegliata, da che eravamo in letargo mentale e percettivo. Essere presenti alla vita è indispensabile per attingere all’oltre che ci riguarda.


La “forma non forma” si manifesta, appunto, al di fuori del quadro consueto, delle aspettative preformate. La nostra mente è capace di risorse inaudite, quando si abbia il coraggio di uscire allo scoperto. Se ci lasciamo toccare dall’ignoto, siamo infatti in grado di ascoltare l’inudibile. Il silenzio coincide con il momento estatico, in cui “il soggetto si perde nell’oggetto” e non vi è più nulla da percepire. La poesia è forse l’unica forma espressiva che riesca a cogliere il nulla nelle sue forme: “regala luce carpita alla primavera”, “s’acquatta / nei buchi di vento”, è la “fiamma senza luce / di un (d)io evaporato”.

Mai come in queste poesie ci sembra di cogliere la trasfigurazione del reale che trapassa dall’immanenza soggetta al degrado all’instabilità; dall’insensatezza all’eterno, in cui agiscono ancora i dati percettivi, ma come transustanziati. Si traghetta da una realtà storica a una realtà poetica. Dunque, Iori non intende affatto liberarsi dalla percezione, ma la usa per modulare il “senso in forma di rosa”.


Poesia e filosofia sono, per Stefano Iori, “forme del dialogo” con l’ignoto. Esse si illuminano a vicenda nell'atto di relazionarsi col nulla: “attorno vibra / un riflesso / d’improvvisa forma”. È la forma-non forma di cui scrivevamo in precedenza, quella forma estensibile che accoglie, svuotando se stessa.

Per sua natura, il pensiero è contraddittorio, parziale e mentre definisce accumula scarti, non riuscendo a integrarli nelle sue definizioni concettuali. Tuttavia, si può ottenere proprio attraverso il pensiero un’apertura basata non sulle definizioni, ma sull’accoglienza degli estremi, ove luce e ombra, bene e male abbiano un “ritmo altalenante”, non espulsivo della controparte.


Se da una parte la poesia apre il varco, dà la possibilità di vedere al di là di esso,  dall’altra, la filosofia, legata al dubbio e alla meraviglia, regala la cognizione di non sapere. Dunque disporsi tra filosofia e poesia consentirà di sostare tra la meraviglia e il momento estatico, entrambe intensità irrinunciabili e complementari: vero e propria “onda di pensiero / filante in prodigio”. Tutto vi appare già smaterializzato e in grado di arricchirsi dell’essenza di entrambi i modi, quelli del pensiero e quelli del sentire. Si è così al cospetto di una poesia e di una filosofia impegnate ad accogliere la realtà e l’irrealtà, il noto e l’ignoto, il finito e l’infinito e pur anche il senso e il non-senso, in quella che è, di fatto, una trasformazione concretissima del nostro stare al mondo.


Si piega in fumo

il mito rigonfio

della padronanza


Il vizio di sapere

tace con garbo


nell’atto della muta


Ma c’è un rapporto particolare che lega la poesia al momento estatico, a quell’affidare il meglio di sé al divenire altro. La poesia è un fare che giunge fino alla “dismisura dell’invenzione” e in questo senso possiamo avanzare l’ipotesi che la meraviglia generata dalla poesia non sia legata al dubbio filosofico, ma che costituisca l’approdo a una coscienza diversa, che in maniera differente ritorni nell’“infinibile”. D’altronde, ogni onda nuova è ancora un mondo incompiuto.


Non vi è una risposta univoca a un quesito. La poesia stessa “muove risposte senza pretesa di verità”. La molteplicità delle soluzioni si colloca sulla spirale del tempo umano. Nessun risposta giunge dal Dio silenzioso che si sottrae e che, nondimeno, non lascia che, nell’umile resa, qualcuno resti privo del suo vortice, del “ritmo che verrà”. Per questo ci piace chiudere con un verso di Stefano Iori:


“Lottare con l’enigma / è ripido incanto”.


                                                                                                                    Rosa Pierno

lunedì 15 maggio 2023

Sergio Zuccaro “123.45. Memorie del cosciale”, 2022

 



È presto svelato il titolo così strano dalle stesse parole dell’autore, Sergio Zuccaro: “123.45, centoventitre punto quarantacinque megahertz è la frequenza radio usata dai piloti di tutto il mondo per le comunicazioni private. Oggi si direbbe una chat. Per invitare alla conversazione basta dire: unoduetre”. Zuccaro è stato tecnico di volo per trent’anni. E il volo è tanto concreto, per lui, quanto paradossale. Incredibili, a dir poco, sono le avventure, le circostanze, le follie che il volo consente: dagli incontri fulminanti agli eventi storici di cui si è involontari protagonisti, mentre ci si sposta per il mondo. Cogliere la complessità di un’esistenza così nomade e farlo con una immediatezza che anche nel ricordo non perde la sua fragranza è certamente azione mirabolante. Ma è in gioco anche un altro piacere, oltre quello proveniente dal ripercorrere i momenti così vari del proprio passato. Quello dell’azzeramento, del raggiungimento di quel grado zero della scrittura che vuol dire ricominciare daccapo e guardare la scrittura anche dal punto di vista del piacere estetico. Godere di tutti i suoi aspetti. Ancor meglio se la memoria vacilla, se la si deve reinventare, poiché allora la scrittura scivolerà e ripartirà ogni volta daccapo e, soprattutto, da un punto qualsiasi.

Con una memoria forata si può reinventare la propria vita, avere il tono meravigliato e sempre entusiasta di un bambino. La scrittura sarà semplice, lineare, con proposizioni essenziali, rispetto alle quali non ci sarà bisogno di tante disgressioni. Quando le cose non sono troppo artificiose anche la razionalità funziona, si applica senza resti, non è facile che inciampi. E se non si convoca alla tavola il commensale “razionale”, vi è sempre seduto quello “ironico”. Un’ironia leggera che sostiene tutta la scrittura. Con scene gustosissime, battute raffinate, delicatissimi camei che risultano burleschi per semplice accostamento di due situazioni o punti di vista diversi. 

L’attività della scrittura è l’oggetto di cui il testo parla, anche se è il volo il tema esplicito. L’autore denomina i suoi appunti “memorie del cosciale”, strumento di scrittura, usato dai piloti,  che si appoggia sulla coscia. Ma chi crede che fin qui Sergio Zuccaro abbia utilizzato una memoria indebolita o limitata deve subito ricredersi: “Ogni volta che a fine volo l’ho sganciato mi venivano in mente le parole di Omero: sfilando la daga acuta via dalla coscia. Per me era la conclusione, per Achille solo l‘inizio”. 

D’altronde, il solo confrontare i fatti della vita, le sue stranezze, con i pensieri paradossali della cultura greca (il ritardo del decollo a causa delle lumache che invadono la pista oppure il paradosso della tartaruga che mette in scacco il velocissimo Achille) mostra quale sia il gusto dell’autore, quello di una riflessione che partendosi dai quei fatti che definiremmo curiosità, gustose o sorprendenti, acquisisce tutt’altro sapore se paragonato alla potenza del pensiero. Che è poi la capacità di donare un senso a qualsiasi cosa. 

Che 123.45. Memorie del cosciale sia un metatesto è intuitivamente afferrabile sin da subito, ma dopo qualche pagina se ne precisa il senso: la legge di Murphy, (“se qualcosa può andar male, lo farà”), è applicabile anche a se stessa, quindi anche alla predizione catastrofica. E allora che cos’è la memoria se non un oblio fruttuoso; che cos’è la ragione, se non un’applicazione estrema; che cos’è la scrittura se non una registrazione da abbandonare?

Ma c’è anche una strana coincidenza tra passato e futuro. Non è singolare che alcune soluzioni trovate nel medioevo, siano usate anche oggi in ambienti tecnologici (si pensi al modo di liberare le piste dagli stormi di uccelli con due falconieri). A volte, anche con giocosi parallelismi, Zuccaro riesce ad inanellare cose molto distanti tra di loro. Ci si può riferire nuovamente a un cortocircuito tra pensiero ed epoche differenti. Non esiste il concetto di progresso nella cultura. Ciò che vale sapere per giustamente vivere è sempre la stessa cosa. Non è un attacco alla tecnologia, in fondo è essa che ci permette di volare; è piuttosto uno smodato uso delle aspettative future il bersaglio che lo scrittore sembra voler colpire.

Non a caso, Zuccaro è un patafisico, oltre che poeta, ovvero un seguace della logica dell’assurdo che fa riferimento a uno schema metafisico eccentrico, a una parodia della metafisica. La Patafisica è una sorta di scienza parallela che studia il particolare, le sue eccezioni per valorizzare tramite quest’ultime tutto ciò che la scienza esclude, il nonsenso, l’ironia, e naturalmente l’assurdo, componendo con esse un universo coeso, ma altro. L’enciclopedia del volo, così potremmo definire questa raccolta di piccoli testi, di una pagina o poco più, legati tra di loro dal tema del volo: una collezione che funziona come esempio di qualsiasi altra collezione o sistema, ma che fa accedere a un altro modo di considerare la realtà. Inezie, particolari apparentemente insignificanti sono in grado di dirottare gli eventi. Nulla deve essere scartato. C’è un ordine in ogni cosa, non quello usuale, certo! Ma un ordine che bisogna imparare a individuare.


La cosa sconcertante è che non vi è necessità di manipolare la realtà per confezionare queste sconcertanti descrizioni. La realtà è già non inquadrabile, sfugge a ogni razionalizzazione, rende stupefatti. E quando si dice realtà, si dice, qui, cultura, modi di vedere, di pensare diversamente. Da una stretta di mano troppo veemente scambiata per stalking a un prato non curato che rischia di svalutare gli immobili dei vicini, da qualche premessa accettabile da cui scaturiscono conseguenze inaccettabili a servitori che divengono predatori di quegli stessi turisti di cui sono le guide.

Il linguaggio usato da Zuccaro è piano, lineare, senza alcun tipo di artificio retorico, quasi per esaltare al meglio il dato nudo e crudo. Ma quale magia scaturisce da una realtà più prossima all’artificio della letteratura stessa! Non a caso, i Cronopios di Cortázar aprono le tende del caravanserraglio, tutto umano, di Sergio Zuccaro.


Rosa Pierno




lunedì 1 maggio 2023

Lucienne Peiry “Armand Schulthess. il giardino della memoria”, pagine d’Arte, 2022

 


La studiosa di Art Brut, Lucienne Peiry, propone lo straordinario giardino di Armand Schulthess, sito ad Auressio a pochi chilometri da Locarno, ma gli appassionati che intendessero visitarlo, non potrebbero vederlo. Il giardino è stato interamente distrutto dai suoi eredi, i quali si sono sempre disinteressati a lui, anche quando era in vita. Per fortuna, ci sono stati alcuni studiosi e artisti che hanno amato la sua opera e l’hanno seguita fin dai primi anni in cui è iniziata la costruzione del giardino, impiantato lì dove già crescevano viti e castagni.

Schulthess aveva una professione sicura che nel 1951 ha abbandonato per realizzare il suo progetto, a cui, d’altronde, stava lavorando già da alcuni anni grazie alla realizzazione di album (una settantina di libri da lui stesso rilegati) che contemplavano pagine di varia consistenza e provenienza: fogli di giornale, pubblicità, fogli di acetato, veline, pagine dattiloscritte e manoscritte; in una parola, la sua enciclopedia, la totalità del mondo conosciuto dalla particolare specola della sua collocazione geografica e temporale. I materiali con i quali produceva i suoi album erano spesso, dunque, materiali di recupero e l’assemblaggio aveva di mira la totalità. Qualsiasi cosa la società  producesse andava recuperata e conservata, a dispetto del suo risibile valore.

In realtà, l’idea centrale alla base del progetto di Schulthess era quella di una sapienza che riguardasse tutti gli ambiti della produzione culturale, escludendo totalmente la propria posizione identitaria, come dire, il proprio potere di scelta, di selezione dei materiali. Attento a essere esclusivamente il costruttore invisibile, il ragno che tesse la tela mirabile, l’inventore di una costruzione ingegnosa che sembra nata con le piante stesse e da esse stesse provenire…  Le piante, peraltro, crescendo, hanno sollevato le costellazioni dei dischi, di vinile o di carta o di plastica, sui quali Schulthess aveva registrato nozioni e frasi, dall’altezza degli occhi al cielo, fino a impedirne così la leggibilità. Credo che ciò non fosse sfuggito al progettista. La rovina dei materiali esposti alle intemperie (spesso foglietti infilati in buste di plastica, come unica protezione) non è forse un inevitabile destino di tanta parte della produzione culturale? Fare, fino all’ultimo giorno utile, sembra essere stata l’unica cosa che Schulthess poteva e sapeva opporre alla distruzione della società consumistica. La vita come indefessa volontà di costruire relazioni tra materie, concetti, forme e come tessitrice di reti fra elementi solo apparentemente estranei l’uno all’altro.


Dapprima egli utilizza i coperchi e i fondi dei barattoli, dipingendoli di giallo per impedire che la ruggine aggredisse la scrittura che lui depositava in seguito sulla pittura con un ferro da calza intinto nella vernice; in seguito, deposita direttamente le informazioni sulla materia. La calligrafia, precisa e semplice, spesso nomina soltanto, altre descrive. Lungo i declivi della proprietà di 800 metri quadrati che aveva comprato, e a cui negli ultimi anni aggiungerà almeno un altro ettaro, si dipanano, spesso in forma di costellazione, gli elementi del sapere secondo leggi di prossimità: scienza, astronomia, tecnologia, filosofia, chimica, botanica, sessualità, mestieri. A volte i cartelli contengono richieste di condivisione, di offerta dell’uso della macchina conoscitiva che lui aveva creato, ma di fatto il suo comportamento resterà sempre ostico alla relazione diretta con gli altri. Una sola persona, Ingeborg Lüscher, riuscirà a conquistare la sua fiducia: gli lascerà una volta a settimana materiali che Schulthess utilizzerà nella costruzione del giardino (rifiuti compresi) e sarà lei a portare nel giardino intellettuali e artisti. Grazie all’intermediazione di Daniel Spoerri faranno visita al giardino Muriel Olesen e Gérald Minkoff. Quest’ultimo scatterà le numerose fotografie che corredano il volume, riuscendo a salvare, dopo la morte di Schulthess, alcuni grandi assemblaggi di piastre manoscritte. Lucienne Peiry ha poi potuto utilizzare tale materiale per l’esposizione collettiva dell’Art Brut tenutasi a Locarno nel 2002.


La documentazione fotografica che Minkoff produce consente di conoscere una delle opere effimere, ma soprattutto meno conosciute, di cui si ha notizia, non solo attraverso la forma assunta dal progetto, ma anche attraverso l’individuazione dei contenuti.

Nel 1972 Schulthess cadde in un dirupo e morì. Nessuno riuscì ad opporsi alla devastazione del luogo operata dagli eredi con l’approvazione delle istituzioni.


                                                 Rosa Pierno