Pagine

mercoledì 13 aprile 2022

Per l’orto. Maurizio Pierfranceschi, mostra presso il Museo Orto Botanico di Roma, dal 15 aprile 2022 al 15 maggio 2022


Giallo canarino, (2021, tempera all’uovo su tavola, 57x92 cm)

All’inizio della visita della mostra di Maurizio Pierfranceschi Per l’orto, presso la Serra Fredda dell’Orto Botanico di Roma, sulla prima parete, al centro del quadro Idoletto (2018, olio su tavola, 120x160 cm) colpisce che la figura risulti un ammanco, porzione della tela bruciata dal bianco, negativo straniante, e che un altro personaggio risulti avere la testa monca, che un cavallo e un pesce siano chiusi in una loro bolla spaziale, (provenienti dal trittico di Bosch Il giardino delle delizie, a cui molti altri esempi nei quadri di Pierfranceschi possono essere riferiti), mentre un altro essere umano è seduto a terra e osserva il suolo della semina. Tutte figure irrelate tra loro e indicanti che le storie sono bandite dal quadro, ma anche che lo spazio e il tempo non vi sono convocati in quanto dimensioni coerenti e continue, ma incongrue e parziali. Il colore è certamente la materia del contendere, più del disegno, del dettaglio, delle proporzioni, della composizione. Quel colore che ci introduce alla differenza materica nel suo ventaglio di opzioni: se il colore denota le materie, il colore è anche luce. Ed è perciò stesso enigma. Scopriamo l’illusione attraverso il colore: le foglie, i gigli hanno il medesimo colore dell’acqua.


Se le figure vi appaiono smaterializzate, non è solo perché nell’olio su tela, Angeli nello studio (2022, olio su tela, cm. 120x100) è il soggetto a richiederlo. Che siano angeli, citazioni dai quadri appartenenti alla tradizione, figure prese dall’ambiente esistenziale, ogni presenza appare non dettagliata, imprecisa, dai bordi incerti e tremolanti. Anche il colore si sfalda, mostra in trasparenza l’unica concretezza, quella del luogo. Si è sempre comparse nell’architettura/monumento. E quando non è l’architettura che sopravanza il tema, allora è la natura (Buonanotte, 2021, olio su tela, 122x167). Una natura che naturalmente non esiste di per sé, essendo al di fuori della nostra capacità di vederla, odorarla, ascoltarla. L’essere umano non è che un abitante ritagliato e incollato. Percettivo o sognante che sia. Non importano i suoi connotati, la sua riconoscibilità individuale. In Amleto di campagna (2022, olio su tela, 91x104), è la maschera a donare l’identità. Il volto semplicemente manca.


Sulla seconda parete del percorso espositivo, con Al riparo (2020, tempera all’uovo su tela, 135x 220), non si deve resistere ai riscontri, tanti, che assediano la memoria: Bellini, il periodo blu di Picasso, i cachi che meravigliosamente punteggiano le tele di Henri Rousseau, le casupole di Carrà, discobolo compreso... Una volta che si sia detto che il dialogo con la tradizione è ciò che connette il pittore con quanto esiste, appunto, in pittura, al fruitore non resta che abbandonarsi alla visione, assaporare tutti i gusti del ricordo, meravigliosamente riattualizzati. In fondo, in pittura, questo è l’unico presente possibile. Si pensi a certi teatrini prelevati dal gusto ottocentesco e ricomposti con la scatola delle costruzioni in legno: l’abaco con i triangoli, i cilindri, i rettangoli, con cui si può immaginare giocasse De Chirico; quel teatro nel teatro, ove ogni cosa che vi può essere immessa, coesiste senza generare incongruenza. È come se s’introducessero nello spazio scenico personaggi di altre commedie o tragedie e ciascuno vi potesse trovasse il suo naturale luogo, che potrebbe essere anche un metafisico luogo. Nondimeno accade col colore: una tavolozza straordinariamente desueta, cozzante, straniante, ove però nulla stride. 


Oleografiche figure, trasparenti eppure tridimensionali; quasi una coppia di anderseniana reminiscenza, quelle statuine di porcellana immerse nella notte, ove gli alberi sembrano tubi di gomma che attraversano lo spazio come un sistema venoso che trasporti luce, anziché sangue. Al chiaro di luna (2020, tempera all’uovo su tela, 135x220) è una di quelle favole nere, dove non vi è nulla di sinistro: il nero notturno è quasi catarifrangente; è più una fantasmagoria in cui la notte non si distingue dall’acqua per quei suoi riflessi luminescenti.

La grande tela della terza parete, la favola, quella favola che sarebbe legata a doppio filo con la narrazione viene convocata solo per svuotare dall’interno ogni pretesa semantica. Arrivo all’orto (2021, olio su tela, 166x193) espone un terreno ormai incolto con una vegetazione che ha preso il sopravvento. Un tronco caduto ha l’aspetto di una colonna franta o di un tubo di calcestruzzo, un bambino dalle fattezze aliene, robotiche, ma forse è uno degli omini bianchi, ignudi, glabri, che discende diretto dai quadri di Bosch, mentre un gattino compare fra una vegetazione lussureggiante come quella che sarebbe ascrivibile a Rousseau Il doganiere, se non fosse che questa veduta ha il senso di un era successiva a qualche tragedia mondiale, da cui, eppure, non sia aliena, definitivamente, la felicità. Stampe aventi per oggetto piante che vengono trasportate da un uomo ci avvisano di un quadro nel quadro, diremmo un inserto shakespeariano, ma sarebbe più giusto dire un rimbalzo dello sguardo pari a quello che si produce in Las Meninas di Velásquez. Quello che si vuole registrare non è il numero dei riferimenti riscontrabili nei quadri esposti, quanto lo scavo che erode il figurativo dall’interno.


Sulla quarta parete, finte cornici, archi, anch’essi smaterializzati dalla pittura: quasi un suo rivalersi sull’architettura e sulla scultura, visto che in Sogni in corso (diramarsi) (2020, tempera all’uovo su tela, 166x193) vi sono busti e statue avvolte in vesti. Si librano, roteano, lo spazio è sempre un ritaglio mentale, mai un fatto fisico. Nella rete cromatica delle aste vegetali, canne e rovi, si nasconde una folla di improbabili personaggi, a dimostrazione che anche la profondità è una funzione della proliferazione mentale. Corpi come veli, cadaveri e animali, visioni e proiezioni non hanno una distinzione a cui appigliarsi, sono materiali immaginari allo stesso titolo dello spazio. Pittura, amatissima pittura!


Sulla quinta parete, ancora tele di grandi dimensioni, come Pianto degli alberi (2021, olio su tela, 135x220) che potrebbe essere un altro manifesto di codeste complesse, originalissime composizioni tutte mentali. Il “pianto”, nella doppia accezione di piantare e di piangere, mostra nel titolo una replica della divaricazione esistente tra realtà pittorica e realtà tout-court. E in fondo quanto dispiace che Platone abbia potuto scambiare un così straordinario rifiuto dell’ordinario, quale la pittura è sempre, fino a innalzare l’impalcatura delle mimesis che resterà sempre a suo discredito, mentre il mondo non platonico gode della pittura che si svolge dinanzi ai suoi occhi nelle sale dell’Orto Botanico. Una pittura, quella di Maurizio Pierfranceschi, che non teme di essere già vista, che non innalza il pennone dell’assolutamente nuovo a tutti i costi, anzi mostra che solo a partire da quello che è già stato in pittura si può dipingere! Ma intanto ci preme segnalare l’uso del bianco che segnala i profili architettonici e dà corpo alle figure tracciandone gli ingessati indumenti. È un bianco abbacinante, a volte aureola che contorna i corpi. Fra le altre figure, va segnalata la presenza di una bambina che è attraversata totalmente dai colori del paesaggio: quasi un corpo translucido, porgente l’idea che un soggetto è sempre immerso nella luce e da questa smussato, attraversato. Un corpo è sempre funzione della luce ambientale.


Con Canto della sera, (2022, olio su tela, 135x220), gli alberi-asparago, le immancabili scimmie, gli uccelli sottratti alla scena o sarebbe meglio dire restituiti dalla memoria, il nero che promette sprofondi, cavee di ulteriori percorrimenti, una sorta di magico genio della lampada che s’intreccia a un abito con cappuccio, un trampolino che aggetta da un colonnato, una serra che tiene a bada una vegetazione prorompente, con accanto le stanze tipiche della pittura trecentesca, raccontano sviluppi di una storia poco legata, dove si può dire che la pittura coincida totalmente con la totalità della sua stessa storia, tutta ascrivibile a quella visione interiore e percettiva che non slega immaginazione ed intelletto, emozione e cultura. E però è da sottolineare che da codesta visione sorge un tremulo afflato tra figure e animali e piante, un sorgivo stato di benessere e di condivisione, indipendentemente dalle condizioni in cui versa il paesaggio.


Sulla sesta parete, nel quadro Con le ali in mano (2018, olio su tavola, 100x70), se i tre personaggi ci impongono un punto focale al centro della scena, i colori ci riconducono alla mente Il giudizio universale di Michelangelo, con quelle carni e il volto in disfacimento, ove una figura, in particolare, ha il gesto tipico di colui che dipinge. Michelangelo ha voluto, difatti, lasciare un proprio segno, simbolo di vanità, autoritraendosi nella pelle scuoiata di San Bartolomeo, mentre Compianto (2020, tempera all’uovo su tavola, 70x100) ritrae una scena che fa volgere lo sguardo interno alla Madonna del cardellino di Raffaello, con i due bambini che si prendono cura di un piccolo nido. Le figure, non prive di modellato cromatico, appaiono pur tuttavia ritagliate nel colore, come se fossero schermi dai quali proviene una luce interiore. Il quadro non è esattamente una sorta di vetrata, seppure la preziosa cromìa sembri discendere direttamente dai vetri di una chiesa gotica, perché sono i soggetti stessi a emettere una radiosa spiritualità.


Anime in pena (2020, tempera all’uovo su tavola, 70x90), al di là delle presenze fluttuanti o viste da diversi punti di vista, presenta quel riferimento esclusivamente cromatico presente nella veste della Zingara addormentata di Rousseau Il Doganiere, che nelle opere di Pierfranceschi ricorre come una seconda firma (il berretto de La domatrice, la pedana in Magia sull’animale). 

Vi è, sulla sesta parete, anche una serie di opere di formato minore; esse risultano stipate di personaggi; il cielo sembra ritagliarsi la parte più solida, dura; un muro di nuvole ghiacciate, forse una montagna completamente innevata. Un gruppo di famiglia, così si potrebbero definire le figure che si stringono insieme e che per affetto condividono un medesimo destino: un agnello, bambini, un uccello, una scimmia. Non c’è soluzione di continuità tra i soggetti viventi e le rappresentazioni (immagini a loro volta presenti su fogli all’interno del quadro. La visione, inoltre, non ha bisogno di essere ulteriormente precisata (Solitari, 2020, tempera all’uovo su tavola, 90x70). Nella mente, una statua sdraiata dalle sembianze femminili sta per tutte le statue femminili sdraiate che si siano osservate. Una sorta di schema della figura o, meglio, di categoria generale. I ricordi di Pierfranceschi sono tutti ricordi pittorici. Non si direbbe abbia avuto altra vita che quella vissuta fra i quadri.


Ancora sullo spazio, per quelle linee bianche su superfici nere, matissiane, che lo rigano come fosse una superficie scrivibile: tela e spazio coincidono, la bidimensionalità della tela, pertanto, si dichiara spazio che può essere trattato in mille modi differenti. La gabbia dello scricciolo si scompagina, perché non vi sono più i classici assi tridimensionali. Il quadro nero è una finestra aperta sul chiaro di luna, più chiaro di qualsiasi possibile neritudine. La domatrice (2020, tempera all’uovo su tavola, 90x70) presenta un ulteriore sfondamento spaziale, perché la traslucenza delle piante mostra il sasso retrostante e si innesta in un ambiente chiuso: sorta di scatola teatrale di cui s’individua la buca del suggeritore. Spazi negli spazi, perciò stesso mai serrati l’uno all’altro. Spazi di ulteriore investigazione dove la luce se smaterializza, ricompone.


La sapientissima palette di Pierfranceschi ci sorprende sempre, accostando tonalità fredde e calde in un contrappunto discordante, che respinge e avviluppa i fruitori nel medesimo tempo. Il tempo, già quale tempo? Quello necessario alla presenza scenica dei personaggi convocati. Una sorta di scambio delle figurine si svolge nei quadri. Ogni personaggio può essere comparsa in un quadro e protagonista in un altro; con gesti ieratici, spesso scolpiti, hanno una pelle livida: carne verdastra risalita da una palude manganelliana. Quel verde acquitrino, che può essere attribuito non solo alla pelle o ai vegetali, agli animali o all’acqua, è il colore del ristagno in cui le immagini coesistono. I cavalli intanto solcano i cieli come fossero tenuti in alto da cinghie. È un cielo, quello di Pierfranceschi, popolato non solo dai canonici uccelli, ma da barche e da ogni sorta di apparizione lucorosa. Una sola foglia sta per un albero intero, da una scimmia urlatrice, esce un braccio umano. In questo Bosch chetato, c’è un’immaginazione che galoppa senza briglie (Magia sull’animale, 2019, tempera all’uovo su tavola, 80x70), ma anche una affettuosa accoglienza che non esclude alcuno.


Dicevamo della compenetrazione di immagini: in Gruppo di famiglia nel paesaggio, (2021, tempera all’uovo su tavola, 50x140), una coppia seduta a un tavolo viene sovraimpressa da una madonna con bambino, sì che l’uomo completa involontariamente o per meglio dire casualmente la sacra famiglia. Il paesaggio presenta la medesima intersezione: case incistate nella collina, alberi ondeggianti come fasci di luce che filtrino dalle nuvole, una barca e l’immancabile uccello nascosto nella vegetazione collinare assieme a un gatto nero (ma abbiamo già individuati sopra i riferimenti più importanti della pittura di Pierfranceschi). Le intersezioni sono materiali in senso metaforico: è il colore ad assolvere alla specificazione delle materie. Colore, la non-materia della pittura, e pur tuttavia, la cosa più materica della pittura.


In Vita sul fiume, (2019, tempera all’uovo su tavola, 50x105), il parossismo della  citazione assume toni virulenti, osa associazioni tratte di peso da una cultura anche popolare contemporanea: l’uomo in tunica e scarpe da ginnastica con un casco che ricorda una boccia di vetro per pesci regge affettuosamente  fra le braccia una pecorella a cui fornisce da mangiare; un uomo diafano con un retino, privo di identità, avente, orecchi d’asino e il medesimo cappello a cono del personaggio in Amleto di campagna; un tuffatore cretese, un albero tenda che sorregge il cielo, figure con cappuccio berbere: tutte insieme raccontano di mescidanze orientali, da mille e una notte. Come dire, scimmie che campeggiano nella medesima casella degli esseri umani, in quello che potrebbe essere un accampamento di saltimbanchi. No, nessuna storia. La terra ha i colori tragici di una tragedia che avanza e che forse è sempre la stessa. Un colore che sembra ottenuto da un petrolio stemperato, una pozza-vasca nella quale risiede un’acqua plumbea. Nei quadri esposti, l’ambiente viene sottoposto, diversamente che dai quadri di anni precedenti di Pierfranceschi, al medesimo trattamento delle persone e degli animali: sfugge alle definizioni, è instabile, proiettato e mobile, uno schermo dove le materie si compenetrano e si fondono. E, tuttavia, resiste, in tali negati racconti epici, il gesto solidale di un abbraccio, un tenersi stretti, un proseguire nonostante le difficoltà.


Apparizioni e scene sacre che convivono. La mente di Pierfranceschi non manca mai di cespugli, di piante d’agave, di santi che trasvolano, di dischi volanti o lenti di luce, è lo stesso, e di barche che arrancano in cielo. A volte, come in Melanconia d’autunno, (2018, olio su tavola, 70 x 110), il dettaglio si sovrappone alla scena, fa venire voglia di toccare la profusione dei verdi, morbidi e vividi. La pecorella ha la base, come quelle per il presepe. Il paesaggio visto s’interseca con i paesaggi dei quadri della tradizione. Il colore si sviluppa come se la materia fosse la stessa: una pura illusione.


Un quadro in particolare, Giallo canarino, (2021, tempera all’uovo su tavola, 57x92), utilizza un giallo ottenuto giocoforza per sintesi alchemica: mai visto un giallo più rapente e sinistro, come lo è la scena, con quel gambo di un fiore che infilza la pupilla della donna, mentre lei mostra un canarino a un bambino e forma una bolla con il chewing-gum. Il contrappeso di questa afferrante scena è una balaustra da cui un angelico annunciatore perviene a portare il suo messaggio, mentre ancora i suoi veli voltolano nell’aria. Un altro bambino, forse San Giovanni, che media le due frante situazioni spaziali, prefigurazione distonica della scimmia che abita l’uomo, non ci fa distrarre dal portentoso pavimento verde-ocra e nero con le immancabili fughe bianche. Ma quel cappello della donna che rammenta un’acconciatura giapponese, che potrebbe essere anche l’aureola della Madonna, ha una forma ellissoide che si trasforma sotto gli occhi e si può stigmatizzare come un’anamorfosi che voglia essere decifrata prima ancora che venga dispiegata attraverso uno specchio curvo. In questo splendido quadro, la crudeltà è quella che osserviamo in Bosch; è rubricata sotto la normalità di una condizione perenne e forse, per questo, straordinariamente contemporanea.


E certamente se si volesse tener conto che fra le impressioni più forti che Maurizio Pierfranceschi trae dalla sua pinacoteca virtuale ci sono agli estremi Henri Rousseau e Hieronymus Bosch, bisognerà comprendere che fra questi due maestri, che mostrano l’horror vacui, infittendo all’inverosimile le loro tele, Pierfranceschi non si fa travolgere, per dare spazio all’insistenza delle tinte, al loro predominio sulle forme, liberando così uno spazio neutro, appunto quello naturale, dove la riflessione può svolgersi con più liberalità, sganciandosi dalla centralità che l’essere umano assegna pomposamente a se stesso.


Sulla parete vetrata si susseguono quattro piccoli olii su tavola, Apparizione sparizione tutti aventi dimensione 40x40, che si sviluppano come le fasi di una medesima storia, raccontata da Bernardo Daddi nella Pinacoteca Vaticana, eppure qui è proprio la storia che latita a favore dell’immagine. In pittura, il racconto è un espediente, un canovaccio, appena un pretesto. Quel che conta è la totalità dell’immagine, nella quale ha rilievo anche il rosso della coperta di seta sul letto contro la parete verde, rapporto cromatico al quale Dürer darà seguito nei ritratti. Quel che conta è che si esce dalla mostra con tutte le storie possibili e nessuna trama, ma con un rosso che perfora la memoria e arpiona il cuore. È un rosso che si ricorderà per sempre. Il vero soggetto di queste tele? La pittura, niente di meno!


                               Rosa Pierno



Aperta al pubblico dal 15 aprile al 15 maggio 2022 

Museo Orto Botanico di Roma

Largo Cristina di Svezia 23a




 


Nessun commento:

Posta un commento