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venerdì 28 gennaio 2022

Danilo Di Matteo Psicosi, libertà, pensiero, Manni editore, 2021

 


Con la sua capacità di fornire un’immagine chiarissima di ciò che è intricato, Danilo Di Matteo attraverso le pagine del suo libro Psicosi, libertà, pensiero, Manni editore, 2021, ci fornisce un altro fulgido esempio di come ogni cosa possa essere portata al suo massimo grado di nitidezza e, al contempo, restituito nelle relazioni che intesse con altri concetti al fine di ripristinare un quadro più aderente, e dunque più completo, dell’oggetto dell’analisi, che nel presente studio è costituito dall’interazione tra psicosi, libertà e pensiero.


Che diverse discipline, psichiatria, filosofia, mitologia, arte, religione, siano chiamate, com’è consueto a cagione delle vastissime letture dell’autore, a interagire, per sostenere la direzione della sua ricerca, non necessariamente presuppone che egli si stia predisponendo all’accensione di una stolida conflagrazione tra strutture diverse, per non ricavarne che somiglianze. Egli vuole invece palesare lampantemente che le esperienze formalizzatesi in ambito scientifico, artistico, medico, filosofico e antropologico delineano un’osmosi continua tra norma e patologia mentale, la quale contribuisce a un disegno non parziale del fenomeno della schizofrenia, fornendo addirittura soluzioni concretissime.


Si tratta di coincidenze puntuali tra cose diversissime tra loro, e così sostanziose, quasi una concorrenza di vasi sanguigni interni ed esterni al sistema, attraverso le quali si nota qualcosa, come una radice comune. È, ad esempio, il caso dell’iper-riflessività, che si riscontra negli schizofrenici, causata da quella forma di autismo che spezza le relazioni con la realtà. Tali soggetti dinanzi a una mela, non si fermano alla sua percezione, ma la scompongono e la ricompongono astrattamente. È proficuo, pertanto, ripristinare quella epochè che Di Matteo preleva dalla fenomenologia di Husserl, la quale consentendo la sospensione del giudizio, per l’assoluta incertezza sui dati, libera il soggetto, il quale disinteressandosi di sé può avviare un’autentica riflessione filosofica, ripristinando quel <<darsi spontaneo, preriflessivo e antipredicativo delle cose>>, quel naturale equilibrio in cui per l’individuo non tutto ha un significato e non tutto è da analizzare e da tenere sotto controllo e che è al tempo stesso garanzia di piacere e di scoperta. 


Come ricorda Di Matteo, dopo Kant <<l’uomo moderno sa che la propria mente è costitutiva di ciò che percepisce e apprende>> e che <<il mondo è una nostra “creazione”; senza quei “filtri” non esisterebbe>>. Il mondo non è evidente, ma è l’elaborazione personale dei dati ciò che ci fa partecipare ad esso, l’integrazione fra i dati culturali individuali con i dati di realtà. Si vede bene come, già in questi primi esempi, vengano individuati concetti antinomici rispetto ai quali psicosi e normalità oscillano. Lo stato patologico della mente è difficile da definire così come lo stato della normalità, ma Di Matteo disegna una sorta di meccanismo visivo che mostra le lame divaricate delle forbici e nello stesso momento il perno che le tiene insieme. È verso questa immagine che ci indirizza il titolo del libro, sebbene i tre termini siano dislocati in maniera paratattica: psicosi e libertà sarebbero le due lame aperte alla massima ampiezza raggiungibile, col pensiero a fare da perno, da regolatore dell’equilibrio. In fondo psicosi e normalità sono due stati del pensiero, diversamente modulabili fra loro. Quando un pensiero non è distorto nella sua attività e si dispone secondo un naturale andamento si può definire libero. Gabbie e forzature, invece, costringono l’essere umano a privarsi del corretto uso dello strumento conoscitivo. D’altra parte, se non conosciamo la nostra mente, nelle sue attività normali, non possiamo apprenderne le deviazioni. Attraverso le pagine dello psichiatra, vediamo diagrammi, coppie antitetiche e dislocazioni in una rete in cui si situano le varie forme di psicosi, impossessatesi di particolari funzioni intellettive o emotive, a vario grado, e presentanti una casistica molto diversificata. Se la malattia è <<il “frutto” del rapporto tra disturbo e personalità>>, ad esempio, anche la creatività è una delle risorse che una persona, che abbia perso il contatto con la realtà, impoverendosi, può mettere in atto, <<se si tratta di un individuo ricco di strumenti di riflessione e di  espressione>>; tenendo conto che anche qui esiste una gradualità tra una risposta che si esercita solo nel settore artistico o che finisce col divorare tutta la propria esistenza. 


Costruire una visione dà modo ai suoi pazienti, ai quali il libro è dedicato, di vedere diversamente i dati e allo psicoterapeuta di poter saggiare le variazioni di grado nel rapporto tra   psicosi e libertà. Contro una soggettivizzazione del mondo (proiezione del proprio sguardo) o contro un’oggettivazione di sé (estraniazione dalla propria persona) portate alle estreme conseguenze, c’è un modo più equilibrato di rapportarsi al mondo e con se stessi che vediamo all’opera in filosofia, dove le due posizioni consentono di raggiungere alcuni traguardi speculativi all’interno di un dialogico confronto. 


Schizofrenia, dunque, come rottura dell’accordo tra io e realtà. La disintegrazione della bolla relazionale entro la quale l’essere umano vive scopre la vertigine di un vuoto, la paralizzante mancanza di significato, rendendolo inetto nella vita. Tuttavia, lì dove si crede di scoprire la verità della natura e dell’essenza umana, quel baratro di apparenze senza fondamento, per dirla come Pirandello, convocato da Di Matteo, non si è invece che colta l’impossibilità di costruire la propria presenza nel mondo. La schizofrenia rompe l’intersoggettività della comunicazione, distrugge la distinzione tra atto e segno, tra reale e immaginario e apre la cornucopia dei deliri (persecuzione, onnipotenza, colpa) e dei disturbi (ossessivo-compulsivi, depressivi, maniacali). Tale distruzione, infatti, implicando ciò che fonda la presenza umana, apre al solipsismo.


Se si riscontra una reazione nei folli che è anche sempre libertaria, cioè reattiva e creativa rispetto alle proprie costrizioni, resta vero che essi rimangono impigliati nelle costrizioni. Un essere normale è un essere ragionevole che conosce quello che non può fare e sa quello che non può dire e tale spazio è uno spazio di libertà. Rispetto ad esso, la follia, così come è stata profilata dalla cultura, risulta più l’immagine di una libertà vagheggiata, idealizzata e fuori dallo spazio concreto di condivisione con gli altri. Così, alla base di Psicosi, libertà, pensiero, c’è la tesi che, se la follia, dalle origini a oggi, è stata tautologicamente pensata come irrazionalità, è necessario correggere la rotta e integrare il pensiero come componente che agisce anche nelle psicosi, nelle quali vi è un‘intensificazione del <<pensare sul proprio pensare>>. Non solo, quindi, follia come  un oscurarsi della coscienza, un declino della ragione, bensì, l’allontanarsi dalle emozioni, dagli istinti, dal corpo, ancora tramite il pensiero. Appare più chiaro in tal modo che è l’uso di categorie e schemi, che sono sempre finzioni, ma ci aiutano a vivere la nostra esistenza, a suscitare nei malati, invece, dogmi e dubbi. Gli psicotici sono eccessivamente vicini al soggetto e non sanno più operare una distanza salvaguardante. Risulta allora necessario riconquistare un <<pensiero né riflessivo né mondanizzato e nemmeno staccato dal mondo>>, ovverosia, un pensiero capace di gestire le angosce della morte e dell’amore.


Quel perno che avevamo creduto unico, il pensiero, è ora stato sostituito dalla libertà. Il pensiero, agente anche nella follia, viene usato in maniera ‘impropria’ dal soggetto, causando sofferenza. Mentre la libertà è il mercurio che fra psicosi e normalità segna la misura della nostra capacità  d’interagire. Tanto che Di Matteo vede nell’incontro (tra lo psicoterapeuta e il paziente) la forza dialogica di una intersoggettività capace di ristabilire il giusto gradiente da assegnare alla libertà. La libertà è la legge fisica dell’incontro ed è la dimensione nella quale <<il singolo è libero-con-l’altro>>. Proprio nello spazio tra l’essere gettati nel mondo e il progettarsi si apre quella dimensione di riconquista dei propri spazi vitali che uno psicoterapeuta può indicare al navigante in pericolo.


                              Rosa Pierno



venerdì 14 gennaio 2022

Agostino Contò Ofelia e altri racconti, Ronzani Editore, 2021

 


La delicatezza che non si dissocia da una precisa restituzione del visibile, nel resoconto degli eventi, pur minimi, nel lungo racconto di formazione Ofelia e le mosche è, nel libro di Agostino Contò, il preludio di quello che il suo sviluppo testuale recherà con i testi narrativi che si succedono incalzanti all’interno della raccolta Ofelia e altri racconti, Ronzani Editore, 2021, di cui si vuole qui anche sottolineare la cura editoriale del libro.


La scrittura di Contò si distende attraverso una serie di proposizioni legate paratatticamente, indicante un accumulo di percezioni o di dettagli che precisano la descrizione della scena e degli oggetti, ma anche le azioni risultano come somma di percezioni, di ragionamenti interpretativi, quasi sillogistici, da essi conseguendo. Pensare è senz’altro pensare il dato percepito – ricordiamo sorvolando il pensiero kantiano che indica che  ogni pensiero è cieco senza un dato esperienziale – e in Contò ogni restituzione è strettamente dipendente dal dato concreto: non è mai un pensiero pienamente astratto. Lo scrittore compone una scrittura teatralizzata, più che dialogizzata: le parole si mischiano con i gesti, i corpi con le cose, il dialogo diviene un’azione corale: <<Noi siamo più forti. Uno con i capelli rossi di terra dice che a forza di rotolarsi con la testa per terra s’è buscato il raffreddore, e tira su di colpo il moccolo che gli pende dal naso>>. È l’autore che è entrato a gamba dritta sulla scena, oscillando tra la finezza del resoconto e il ritmo di una prosa serrata, dal brevissimo respiro, tutt’azione. Ma non v’è percezione che sia degna di tal nome se non è estetica: <<E il pavimento della cucina  è ugualmente rosso, di mattonelle di cotto esagonali. E rosso è il cielo di questo tramonto a contrasto con il verde scuro degli alberi del parco>>. Percezione che a sua volta dà, dunque, la stura all’immaginazione, sicché se una bocca mastica verdi frammenti si può dedurre che essa mastichi lucertole. Ma non solo le esperienze visive, benché principali, si srotolano sulla pagina; anche quelle dell’odorato sono altrettanto capaci di fungere da tunnel spazio-temporale per agganciare la realtà, quella realtà che in un testo letterario appare sempre problematica. In ogni scrittore, in questione è la definizione della realtà, di che tipo essa sia. La realtà esiste esclusivamente in colui che la percepisce, sicché gli odori, compresi quelli meno piacevoli o i rumori prodotti dal movimento degli elementi naturali o il suono corroborano un affresco che si disfa e si ricompone incessantemente, andando a costituire, in Contò, la vera ossatura del testo. Sebbene il racconto di formazione – che è sempre anche racconto dell’infanzia, scaturigine della personalità, disegno dello spazio esistenziale che ha segnato indelebilmente – funga da paravento, da schermo sul quale si proietta l’amarcord, è altrove, pertanto, che si svolge la vera vicenda.


Nella successione dei racconti, ciò che è percepito e che contribuisce a profilare l’importanza degli attori sulla scena ricostruita mnemonicamente, rapidamente diviene  a tal punto principale che si tratta ora solo di seguire tali vivide sensazioni, sgorgate nella loro originaria freschezza e intrappolate nel flusso testuale. Abbandonarsi ad esse vorrà dire, per lo scrittore,  insediarsi al centro della propria esistenza, mentre tutto il resto si allontana, andando a ricoprire un ruolo subalterno. Certamente la suddetta accelerazione si ha sull’onda dello studio del Nouveau Roman, e in particolare di Robbe-Grillet. Nel racconto Il rito vi è persino una esplicita citazione del millepiedi presente in Gelosia. Ma Contò coincide, per personale inclinazione, con la suddetta poetica esclusivamente per l’attenzione percettiva e non certo per la nitida ed elementare scrittura, poiché quella che egli produce è tanto ricercata che i dettagli descritti sono un rebus da ricomporre, più che la restituzione di una limpida visione: <<di tre anni, il vetro appena brunito (a riparo da zaffi troppo intensi di luce), un corpo tornito e allungato fino all’esile collo, e l’umore d’uva, il contenuto prezioso>>. 


Resta l’attaccamento alla gente semplice, ai contadini, un legame sordo, sentito attraverso il corpo. Così è ora una voce adulta che racconta i temi della vecchiaia, dell’appartenenza alla terra veneta, degli amici al bar, della povertà, delle donne, ma anche quello dell’irrealtà delle convenzioni, di certe derive che l’ambiente finisce col produrre sulla visione del mondo, ma che ancora solo altri elementi percettivi possono modificare. Come dire un dettaglio-pensiero scaccia un dettaglio-pensiero fino alla riconquista di una maggiore aderenza a sé. La presenza di un certo numero di vocaboli, ‘lessa’, ‘vergognina’, attesta di un accostamento al linguaggio che prelude a un maggiore invischiamento dovuto a situazioni conviviali, mentre altri denotano la sua distanza da esso: <<la quadrifora quattrocentesca con i vetri rotondi piombati sulla grande loggia>> nel medesimo racconto Tolpada. Tocca i vertici di un certo straripare rabelaisiano, il lessico di El Pitor, la cui punteggiatura manchevole rende il flusso ancor più torrenziale. La ricchezza di una sintassi che racchiude anche versi: <<L’oste sogghigna di sottecchi (arrossendo per l’infausto socio qual ci toccò: dunque da fregola viziosa mosso)>> risplende nelle narrazioni in cui il vino è presenza irrinunciabile. I quadri di convivialità, la narrazione di incontri seducenti, allunga o raccorcia il ritmo della prosa. Ma l’indagine si fa più profonda non in relazione alle persone, spesso non comprensibili, viste dall’esterno come oggetti imponderabili, ma alle cose e ai luoghi maggiormente familiari: le porte aperte o socchiuse, le ragnatele, i chiodi, la polvere, la ruggine, le travi ordiscono una realtà che a volte, quasi per voluto errore, ha un sapore metafisico.


                                                                                                 Rosa Pierno