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sabato 31 luglio 2021

Alphonse Daudet “Cinque racconti” Pagine d’Arte, 2020

 


Il profilo di Alphonse Daudet emerge magnificamente dai testi presenti in Cinque racconti, curati da Matteo Bianchi e Carolina Leite, ove l’aggettivazione a profusione, sempre però precisa e puntuale, è ciò che maggiormente rapisce nella tessitura testuale. È dagli aggettivi che zampillano le occasioni metaforiche o comparative. Tutto spostato sul versante letterario anziché su quello realistico, la vita è una trapunta di stelle solo che così la si sappia sentire e vedere. Si direbbe, anzi, che nel rapporto tra figura e fondo sia quest’ultimo ad apparire privilegiato e che in Daudet prevalga la tendenza a riempire di umana partecipazione il mondo. Anche i personaggi sembra siano desunti a partire dall’ambiente, così che grande attenzione viene data alla loro condizione economica e culturale. Lo scioglimento di ciascuno dei testi presenti nella raccolta è risarcitorio, consolatorio, non per conservazione dello status quo, per passività o accettazione fatalistica, quanto piuttosto per non privare gli ultimi del valore di quel poco che comunque gli è toccato in sorte. Per indicare la delicatezza di Daudet narratore, potrebbe essere sufficiente riferirsi al racconto Le stelle, in cui la sensibilità è al massimo grado e si accorda, peraltro, al rispetto per l’altro e alla bellezza. Nei testi dello scrittore francese non si afferma dogmaticamente la concezione platonica, nella quale morale e di bellezza procedono sempre insieme, ma si può scorgere, come attraverso un cristallo, l’uniformità del sentire/pensare, quel loro  concorrere all’unisono, o almeno il desiderio di un tale traguardo. Benché, sia più esatto dire che la grazia percorre di fatto tutti e cinque i racconti, divenendo stato di grazia del lettore. Mai in Alphonse Daudet vi è estraneità rispetto all’oggetto narrato, mai vi aleggia quella finta obiettività che allontana qualsiasi esperienza della realtà dalla caratterizzazione soggettiva; anzi, una partecipazione trepidante e calorosa scorre sulla sue pagine con un flusso ininterrotto, tanto da non cedere persino dinanzi alla disgrazia: lo scrittore guarda con commiserazione e comprensione gli eventi e e le vittime. 

È con gratitudine che il lettore guarda all’intento dei curatori, i quali, con la loro casa editrice Pagine d’Arte, ripropongono le prelibatezze finite in un angolo dimenticato, grazie alla collana di testi brevi da loro ideata “I fiammiferi”. Testi che, indipendentemente dall’epoca nella quale sono stati scritti, ottocentesca o contemporanea, offrono al lettore favolose visioni, modelli interpretativi e stilistici da cui ripartire e in cui immergersi.

Chi non avesse letto da ragazzino le prodigiose avventure di Tartarino di Tarascona, si è perso ore di puro divertimento e meraviglia, garantite dall’ingenuo eroe provenzale a caccia di leoni in terra d’Africa che riesce a rimediare soltanto la pelle del leone cieco di un circo. Falso cacciatore, tuttavia seguito con affetto e credito indeponibile dal suo creatore. L’umanità e la generosità di Daudet furono molto amate da Proust. Egli fu amico anche dei Goncourt, con i quali fondò l’Accademia Goncourt, e di Zola, il quale definì la sua opera come appartenente al naturalismo, per la descrizione minuziosa di ambienti anche esotici, sebbene Daudet disegnasse i personaggi incontrati nella sua vita con dettagli immaginari e irreali. Fu, insomma, un uomo a tutto tondo e uno scrittore dalla penna felice, grazie alla sua presenza palpitante.

A tratti, affiora dalla mitezza della voce narrante, uno stridìo, qualcosa di inaccordato che ricorda la plumbea atmosfera di Edgard Allan Poe. La maestria con la quale Daudet opera questo sdoppiamento dell’immagine, che però subito dopo ricompone, dà conto dei diversi registri che la voce autoriale può assumere, senza, oltretutto, sfondare le cesure tra generi, cioè restando nei ranghi di un testo canonico, a dimostrazione che lo scrittore, a maggior ragione che se li travalicasse, non può essere rinchiuso in un recinto schematico.

A tal uopo, si rimanda al racconto Wood’s town, dove una foresta, disboscata dall’ingordigia mercantile degli uomini, riprende il suo spazio, avanzando come nel testo shakespeariano; in tal guisa, accampando di fatto il testo tra due autori, non solo tra due generi. Persino l’ironico tono con cui egli racconta un drammatico episodio, ne I canapè, non sfocia giammai in dileggio o in sarcasmo. Se presente, la tragicità emerge solo alla fine di un racconto lieve e cesellato come un arabesco multicolore, come accade nel racconto Il caravanserraglio, ed è mantenuta anch’essa sotto tono, smorzata, suggellata da un pudico riserbo.

Pur anche Andersen fa capolino tra le pagine delicate e vibranti de Lo specchio, in cui una ragazza creola  affronta la rigidità di un inverno del Nord.

Amante della letteratura e dell’umanità, Daudet, assieme alla nostra considerazione, rapisce anche il nostro affetto.


                                    Rosa Pierno

mercoledì 14 luglio 2021

Fausta Squatriti “Carnazzeria. Poesie, Collages” Myself Research Testuale, 2004

 


                                                              


Nel libro di Fausta Squatriti Carnazzeria. Poesie, Collages, Testuale, 2004, gli interventi critici di Gio Ferri, Milli Graffi e Angela Madesani cercano di individuare le tangenze tra le poesie e i collage che il libro espone, perché se i due linguaggi sono irriducibili, pure è solo una la mente che li pensa e daltronde la formalizzazione poetica o visiva deve congegnare mezzi espressivi che siano di sostegno a una medesima visione.

Un libro anfibio. Un libro-cartella con la piegatura della copertina che raccoglie le quindici immagini, le quali dialogano fittamente con il testo. Sicché privilegiare una forma espressiva per spiegare laltra non ci porterebbe che, ancora una volta, a privilegiare il verbale sul visivo. Meglio sarebbe procedere alternandoli, anche per cogliere le differenze formali. Tuttavia, quel che lopera visiva dice, non lo dice lopera verbale e viceversa. Bisogna forse rileggere e rivedere più volte, far levitare anche ciò che si situa fra le due modalità espressive, poiché un terzo senso si solleva, inevitabilmente, dallaccostamento delle due forme. Senza naturalmente tralasciare il contenuto che, in questo caso, è certamente drammatico. Anzi, si comprende meglio la presenza della geometria (forme astratte) che sempre impedisce la piena insuperabilità degli effetti drammatici della guerra e persino della natura umana. Una ragione può sempre mettersi allopera, cercando il modo per uscirne. Ciò nonostante, si parte dalla mancanza di relazione tra ragione e passione, dal disequilibrio tra volontà ordinatrice e pulsioni e, nonostante il loro ineludibile fronteggiarsi, si cerca la via duscita, anche se la ragione sembra affondare vieppiù nelle sabbie mobili.


Il desiderio di ricreare nellopera quelle sensazioni di simmetria, equilibrio, armonia, superiore fusione che abitano la mente prima che siano trasferite alle forme espressive, e che si possono indicare grossolanamente più o meno come valenza estetica che è attivamente implicata nella costruzione di forme, diviene non punto di passaggio obbligato, ma grado superiore di elaborazione. Elaborare esteticamente vuol dire avere già attivato limmaginazione, unica risorsa capace di non ridurre lessere umano alla sola caratterizzazione relativa alla sua doppia natura (avente in sé il bene e il male) ma di indirizzarlo verso una superiore visione. Risorsa che, pur priva di garanzie, si rivela quale unico viatico possibile. Ma, si badi bene, per Squatriti, estetica non coincide con eleganza, che altro non è se non un aspetto della morte, del vaneggiamento umano nel mero raggiungere lo stile: i piedi costretti in bende delle donne giapponesi, lobesità delle donne nigeriane rimarcano lorrore per certe pratiche in cui lesigenza di bellezza diviene strumento di dominio e di morte. Mentre è solo limmaginazione a rendere consapevoli che si può scorgere qualcosa oltre le contraddizioni, tutte concrete, dellesistenza.


Si palesa profondamente motivato (non solo nel caso del presente volume, ma in tutta la ricerca dellartista) il ricorso di Fausta Squatriti alla necessità di muoversi sui due binari formali (verbale e visivo) per affermare sia la discrasia esistente  tra azioni e pensieri sia la complessità di una realtà basata su illogicità e contraddizioni. È come voler accerchiare il nemico usando tutti i mezzi a disposiIone. Il paradosso, se non lo si può risolvere,  deve almeno essere visto al fine di poter mirare a un bersaglio, ove, fra laltro, il percorso, rispetto al fine, è più del punto mirato. Lo leggiamo nei paradossi verbalmente espressi: silenzio di gesti”, primizia ammorba discarica”, seminare gramigna”, usurai angelicati”, carestia lamenta indigestione”. Così come negli equilibri impossibili tra oggetti (teschi, cappi, mine) e figure geometriche dai contorni irregolari, che si ripercuotono nelle sue immagini.


Daltra parte, la presenza del male, che non può eradicarsi dal bene, richiede che la costruzione del verso sia effettuata con lo svuotamento di ogni definizione positiva e, allora, tutto si manifesta come macchiato; non c’è ciliegia senza verme, sì che la dizione è imperfetta, il modello è infedele, lorma è impropria, il confine è incontinente. E nelle immagini: nulla è intero, nulla è intonso, il fiore si specchia in un drappo insanguinato, la foglia è invasa da lumache divoratrici.

Ogni atto, persino quello naturale del coito si ammanta, nellessere umano, di sovrastrutture innaturali, al modo in cui i legami naturali si allacciano ai simboli della morte. In fondo, anche i simboli appaiono svuotati dallinterno, come nel troppo pieno dellotre nel vuoto di promesse”. Ed è per questa ragione che va issata la massima attenzione, che il mondo va sorvegliato, affinché nulla che sia umano debba essere creduto naturale. Ancora alla mancata funzionalità del simbolo viene affidata, nelle poesie e nei disegni, lo svuotamento del senso quando il segno di riconoscimento agisca nella mancanza di memoria. Che è quanto dire nella mancata capacità di costruire il futuro. Alcuni oggetti, nelle immagini, sono a loro volta non scioglibili dallambiguità percettiva. Restano come sospesi e inutilizzabili, proprio perché la cultura fornisce oggetti spuri e contaminati.


A una mancanza di linearità semantica, a una marcata complessità interpretativa, dovuta a una sintassi che trova le sue regole nellaccostamento di vocaboli anche molto distanti fra loro, si legano immagini che presentano elementi concreti e astratti in una configurazione conflittuale, tuttavia, ancora relata.

Abbiamo preferito porci fra le due forme espressive, poiché lopera richiedeva per la sua duplice costruzione che si tenesse conto della loro natura anfibia. La loro autonomia impedisce che si possa giungere a unesaustiva esegesi, il che è sempre vero, ma qui, è vero al quadrato.



                                                             Rosa Pierno