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mercoledì 8 aprile 2020

Marica Larocchi “Polveri Squame Piume. Prose e poesie” puntoacapo, 2020




Il nuovo libro di prose e poesie Polveri Squame Piume, puntoacapo, 2020, di Marica Larocchi, è un nastro che si svolge tra i mondi preferiti da Rimbaud – autore particolarmente caro alla poetessa, in quanto da sempre attenta alle qualità estetiche e sonore della poesia – ma anche tra universi favolistici ed enigmatici. Larocchi mai depone l’irrealtà e il mistero, in quanto se sono componenti intrinseche della poesia, si pensi all’aureola del senso indefinito che circonda ogni parola immessa nel testo poetico, sono anche gli eventi principe, il soggetto di ogni poesia. 
L’attenzione estetica, sempre presente nei suoi lavori, si concretizza, in particolare, nella sezione relativa al duomo di Monza, città nella quale, Larocchi vive. I ricordi, quando srotolati sulla pagina da un poeta, assumono una profondità immaginifica, storica, ma anche atemporale, scientifica e fin anche alchemica, a significare che non c’è cesura nei significati che ogni parola offre.   

Le stratificazioni semantiche deposte sulla pagina dalla poetessa non vengono ritagliate e ridimensionate dal contesto, bensì appaiono come riverberate in ogni dove, assumendo una tridimensionalità ologrammatica. Nulla è più relato al contingente, ma diviene diffrazione, senso avvolgente, pur precisissimo. Non solo gli innumerevoli significati, ma anche i domini culturali si squadernano dinanzi agli occhi e nelle orecchie del lettore. Parole preziose e risplendenti,  materiali rari innestati in una tela a trama larga, strutture multipiani che divengono strade e terrazze. Le disgressioni fanno cadere da una dimensione spazio-temporale a un’altra; leggendo si attraversano memorie e libri d’avventura, ma il movimento non è soltanto centrifugo, relativo a una dislocazione che si allontana fino a scomparire dalla vista, poiché è anche centripeto, come in un imbuto che faccia scivolare tutti i materiali lessicali verso qualcosa che si può definire ‘io’, ultimo avamposto che tutto tiene insieme. Quell’io che si vede citato specialmente nella sezione Autobiografia, dove il soggetto non è rifratto: Vi ascolto, Li ho sorseggiati; laddove è, cioè, sempre esplicitato, ma è ancora e solo il testo nella sua totalità a farsi carico della dispersione e della centralità dei significati. Tale movimento, privo di soluzione di continuità, può essere metaforicamente espresso dalla metamorfosi che la stessa autrice indica come chiave di lettura del mondo.

Dalla sezione Nel paese dei totem:

Che bella foto! La smania di crociere ci fa trine e troneggianti – nonna, nipote e figlia – anche se un po’ di sbieco, sulla tolda di panoplie stinte tra l’acqua e le fronde. Ma il calibro è proprio d’istantanea matrilineare, anche se sfumano i profili di menadi e balene; senza occhiali, se ne leggono ancora gli sfiati intermittenti sul foglio quadrettato di un’infanzia prodiga d’ami orbicolari.
In primo piano, nessuna crudeltà; ammutolito anche il fragore degli obici appena abbozzati in calce dopo il tremulo Semper cogita et vale.

Dalla sezione Mosè Bianchi al lavoro nel Duomo di Milano:

Forse non è neppure un motto
d’arguzia a sorprendere quel ricciolo
di mota sopra cui soffiano ancora 
alisei graziosi. Se levo il braccio,
la fila di fiammelle piega a destra,
mallevadore il gesto che a fatica
dota di luce – rosa arancio – una gota,
incompiuta sulla tela, quasi
d’embrione. Oltre i graffi
dei rami e bieche grate
ecco esalare confessioni
sommesse: a picco le vetrate.
E dal fronte della grazia 
la manciata di voti si smarrisce
sul copale d’inginocchiatoio
per saldarsi tra i riverberi
opachi al disegno infiammato
del rosone. No. Non può 
la mia spatola inseguire
l’iridiscente impronta
di una carne così segreta;
né l’occhio, appannato 
dai vapori del tempo,
riesce a scandagliare nel nodo
di tante cicatrici le velature 
più fresche del pennello
che vaga adesso dalla
tavolozza dei sogni
alla navata più cupa
del tempio, ai capitelli
mostruosi dove 
s’attorciglia e scroscia 

inatteso il temporale.

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