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giovedì 26 marzo 2020

Francesco Terracciano su Bruno Di Pietro “BAIE” (Oèdipus Edizioni 2019)





“tanti quanti chicchi ha la granata
"Quando [David Herbert Richards] Lawrence, vedendo una ragazzina giocare davanti alla cattedrale, si domanda chi vorrebbe salvare in caso di distruzione e si stupisce di aver scelto la bimba, il suo stupore rivela tutta la confusione che il ricorso ai valori introduce nell'arte. Come se non appartenesse alla realtà propria del monumento - di tutti i monumenti e di tutti i libri insieme - l'essere sempre più leggero, sul piatto della bilancia, della ragazzina che gioca; come se, proprio in quella leggerezza, in quell'assenza di valore, non fosse concentrato il peso infinito dell'opera."
Per qualche ragione , la prima immagine che mi affiora alla mente dopo aver letto a lungo il recente lavoro di Bruno Di Pietro è questo passaggio da "Il libro a venire" di Maurice Blanchot, dove si compie un lavoro di scavo complesso nell’opera di autori apparentemente distanti tra loro e discosti dalla poesia, Proust e Artaud tra gli altri, Musil, Hesse e Rousseau.
Blanchot vi affronta con impeto le questioni primarie della vie littéraire : la misteriosa, indecifrabile esigenza di scrivere, la lotta alla quale è condannato ogni autore e l’oblio che gli tocca in premio – domande necessarie e urgenti  a lui stesso –; la necessità di assorbire l’infinito in una formula, il rapporto  alterno con l’immaginario e con le leggi segrete del racconto; l’alchimia del tempo tramutato  in spazio narrativo, l’insufficienza del linguaggio e la sua inadeguatezza, l’incomunicabilità del pensiero.
Quasi sopraffatto dall’onda che aveva mosso da solo, Blanchot prova a mettersi in salvo spingendosi più avanti, arrivando a immaginare per sottrazione la morte dell’ultimo scrittore, un’epoca in cui non solo non ci saranno nuove opere, ma sarà impossibile rifugiarsi in quelle già scritte perché sarà già stata decretata la sparizione di tutti i libri: in quel tempo o in quell’incubo,  l’arte sarà morta lasciando il posto a poteri totalizzanti e spaventosi, in grado di cancellare ogni residuo di umanità. 
Altrimenti, sarà il tempo del Libro vagheggiato da Mallarmé e da Flaubert, che Blanchot descrive come una creatura a più facce – una rivolta verso il Nulla, l’altra verso la Bellezza o quello che ne rimane. Un libro senza autore e senza lettore, che poggia sulla legittimazione dell’irrealtà, sul definitivo che non sussiste: un passato intatto, illeso,  e un avvenire che non può accadere.

Nel libro di Di Pietro il dubbio di Lawrence non viene tradotto in azione o risolto, volontariamente; la “ragazzina che gioca” e la “cattedrale” sono i protagonisti di un dialogo, gli attori di un’opera che proseguono la narrazione e completano l’intreccio di numerose altre.
La prima è nient’altro che l’anima: nonostante la fine della metafisica, di quella patria della parola che ha connotato la poesia precedente, Di Pietro non si preoccupa di definire quale musa scenda precipitosamente dal podio, quale sia la nuova Grundstimmung alla quale riferirsi, ma, semplicemente, con forza e con pienezza dice, mostra tracce; indica orme e sentieri, non inventa prove o soluzioni.
A parlare, o più esattamente, a suonare, in Baie, non è la voce, il dettato poetico di un uomo pervenuto alla maturità degli anni e alla padronanza dei mezzi - la pienezza degli strumenti poetici è rivelata, infatti, attraverso una parola asciutta, se non addirittura avara, che è tanto la conquista faticosa del metodo quanto l’estrema semplicità dell’originario, del primordiale- ma uno spirito straordinariamente giovane, che non vuole collocarsi in un punto definito della storia collettiva e personale, che intende dire da una regione al di fuori del tempo e dello spazio, un αών che, in accordo con la cosmologia greca, personifica l'eternità e il susseguirsi delle ère ma anche tempo vitale e destino, l’istante a-temporale senza estensione che frammenta il presente e corre indifferentemente verso il passato o il futuro, secondo l’analisi di Gilles Deleuze.

il tempo non incide in ciò che è stato
residua allora scrivere il passato
come solo repertorio dell’eterno
(per gli amori è già prossimo inverno)  pag. 48, Baie, Oèdipus Ed.ni 2019



porta la tua voce ignoti suoni
apre fughe profonde
(allude riparo alle tue sponde)        pag. 34, ibidem

Una parola asciutta, se non addirittura avara, dicevo. 
L’impressione non è riferita, come è ovvio, alla scarsa disponibilità a spendere o a donare del proprio compresa tra i vizi capitali, né al desiderio di accrescere indefinitamente il possesso di cose materiali, ma a quella voce che sia de-finizione della realtà, a quel detto che non pecchi in eccesso né in difetto nell’individuare lo stato delle cose.
Non è un caso che il nucleo originario di “Baie” sia ravvisabile in una partizione di “Colpa del Mare e altri poemetti”, Oèdipus 2018, intitolata Avari fiori, che si concentra sugli affetti quotidiani con una parola leggera e acuminata, che molto ha in comune con la disposizione d’animo di Ovidio, col genio epigrammatico di Lucrezio, in qualche caso con la passione bruciante e il disincanto che ne consegue di Catullo, e che dice molto della difficoltà del vocabolo a descrivere o aderire al pensiero.

IX.
non possiamo Nietta che spremere
poco succo dai limoni rari
(quante le gemme bruciate dal freddo)
meglio sentieri antichi poco battuti
strade deserte polverosi cardi
(il pensiero arriva sempre tardi)      pag. 69, Colpa del mare e altri poemetti, Oèdipus Ed.ni 2018

L’uomo, sembra dirci Di Pietro, non è affatto padrone del linguaggio che adopera, e il linguaggio, anche se appare contraddittorio o fortemente ossimorico per chi col linguaggio si misura o lavora, non è neppure  uno strumento. Per dirla con Heidegger,  non c’è che il «gioco» del linguaggio, il linguaggio «gioca» con gli attori che lo abitano. Ciò che è importante in questa partita è il gioco stesso, non i giocatori. 
In queste accezione si può dire che il linguaggio si prende gioco dell’uomo e, giocando con lui,  lo rende umano al più alto grado, lo trasfigura. Gli uomini  cui tocca di essere «giocati» dal linguaggio sono i poeti, e ciascuno di loro si muove con regole proprie.

trovammo porto
e ormeggio all’imbrunire
erano stanche le vele
sfinita dall’inedia
la parola                        pag. 14, Baie, Oèdipus Ed.ni 2019



C’è un altro luogo dal quale parla Bruno Di Pietro, un territorio pericoloso quanto gravido di effetti e di risultati, e questo territorio è il Nulla, la sola determinazione con la quale può e deve fare i conti la poesia di oggi, soprattutto quando abbia la volontà di essere avanguardia: torna qui la “cattedrale”, il secondo termine della visione di Lawrence.
Mentre la poesia del Novecento è stata in larga parte positiva,  o, se si preferisce, ha intrattenuto un rapporto solido o dialettico con il reale -da Laborintus (1956) di Sanguineti , definito da Zanzotto come “la trascrizione più fedele di un esaurimento nervoso”, a La ragazza Carla di Pagliarani (1960), da Gli strumenti umani di Vittorio Sereni (1965) a Le case della Vetra (1966) e a Gesta Romanorum (1967) di Giovanni Raboni fino a Composita solvantur  (1994) di Fortini- da un certo punto in avanti ci si è trovati a poggiare i piedi su un terreno decisamente più instabile e insidioso.

Bruno Di Pietro comprende l’inevitabilità, per la nuova poesia, di farsi dappresso al nulla e sfidarlo, perché, mutate le condizioni del mondo e la percezione del Reale, l’unica costruzione che rimane alla la poesia è quel nulla e nient’altro.
Mantenersi nel Nulla, qui torniamo ad Heidegger, è l’unica condizione possibile per essere, l’unica indagine possibile nei limiti del finito, l’unica attività conoscitiva che non cada, rovinosamente, nell’errore.
La verità dell’Essere si lascia cogliere dall’uomo solo sulla base del Nulla, e occorrerà quindi ammettere che il nulla si manifesti come appartenente all’essere stesso, che esista coessenzialità dell’essere e del nulla.
“L’essere è una pura esigenza fra il linguaggio e il mondo. La cosa esige la propria dicibilità, e questa dicibilità è l’inteso della parola”, scrive Giorgio Agamben in L’uso dei corpi (Neri Pozza, 2014, p. 220).

non ci sono più siepi
ad escludere lo sguardo
e l’ultimo orizzonte
è ai tuoi piedi
(siedi
e guarda per terra) pag.9, ibidem


È un nodo concettuale di non lieve entità, e questo è chiarissimo a Bruno di Pietro che, tra l’altro, ha una solida formazione filosofica coltivata con amore nel corso degli anni,  che costituisce la nota dominante 
–in qualche caso il contrappunto- di molte delle sue opere in versi.
Lottando con questo assioma, però, Di Pietro riesce a rimodularne in qualche modo il paradigma quando, insperatamente, fa rientrare l’uomo -da una finestra, da una feritoia- nella Storia e nell’essente, in contraddizione con quanto affermato da Emanuele Severino (altro filosofo a lui caro e presente).

tanti quanti chicchi ha la granata
saranno i tuoi anni
e verranno tutti
a trovarti ogni giorno
mentre assapori i dolcissimi frutti
(e questo sarà l’unico ritorno) pag. 62, ibidem


Resta ancora, per concludere la visione di Blanchot e il dubbio di Lawrence che ho preso a pretesto per parlare d’altro, codificare un sistema di valori e darne una rappresentazione adeguata, elaborare la semantica più adatta a collocare Baie nella categoria che gli appartiene e chiarirne il lessico, definire il lato didascalico compreso tra il “peso infinito dell’opera” e la sua “leggerezza”.
Da questo punto di vista, l’impiantito sul quale poggiano le immagini evocate da Di Pietro è straordinariamente leggero, ed è curioso per un’opera che si rivolge a tutte le stagioni e a ogni tempo:  Baie non recluta epigoni né domanda eredi, e non vorrebbe averne, preferendo invece camminare al fianco di ciascuno con l’unica eventualità di farsi sostegno o confronto, evitando di pronunciare vaticini dalla posizione del Poeta Orfico o secondo una discutibile autoinvestitura civile.
La cifra stilistica diventa ancora più esplicativa nei periodi conclusivi delle composizioni, dove  la frase si fa frammentata ma, al contempo, risolta dalla chiusa come punto finale; il giro sintattico, al contrario, non si chiude ma piuttosto si afferma in una non-risolutezza, come a voler dare testimonianza anche linguisticamente di una ferita o di una mutilazione.


Così ricominciammo dal pomario
il bibliotecario acquisì i testi
Gli erboristi trovarono un mestiere
il cerusico a curare sofferenza 
dopo secoli di assenza
La terra diede altra notizia di sé. Pag.69, ibidem


Il dialogo con sé stesso e con la figura femminile presente nelle liriche, realtà o archetipo, costella il  dettato poetico di rivelazioni che seguono la quotidiana mutevolezza degli elementi e della natura senza mai arretrare, strappando la sostanza dei sentimenti umani attraverso le necessarie analogie o le considerazioni alle quali è indotto il lettore.
La relazione con il sé poetico è aperta ad un ascolto e a un dialogo vero con il mondo, con gli oggetti  ai 
quali si riesce a dare o a togliere valore, anche in costanza di un allontanamento delle parole della poesia:  la “cattedrale” è tanto più vuota quanto più complesso è il meccanismo delle forze che la tengono in piedi, archi e volute e colonne, e quanto più affascinanti e perfetti sono gli affreschi che ne decorrano l’interno.
Non resta, quindi, che lasciarsi andare –con un abbandono ragionato, che obbedisca sempre a qualche legge o regola interna- a quel mare che in un tempo lontano ancora permetteva l’esistenza della poesia, il suo sopravvenire e il suo sopravvivere. 
Non è un caso che la metrica di Di Pietro, anche quando sembri più docile o libera in apparenza, il suo andamento legato alla ritmica o alla prosodia, si rivolgano al Novecento come ad un porto sicuro, l’insenatura più consona alla sensibilità e alla poesia attuale. 
Nel momento in cui prende atto che non sono più disponibili parole «nuove», Bruno Di Pietro propone un ritorno all’antico che non è banale citazione ma rilettura, rivisitazione organica dell’antico. 
In questo modo dice anche, ed è il dono estremo del suo recente lavoro,  che non è più possibile o utile lo sperimentalismo ardito di molti autori contemporanei,  se non come salto di netto all’indietro, unica operazione per prendere all’amo la parola che appartiene alla nostra patria comune, che ne fonda la collettività. 



                                                                     Francesco Terracciano

sabato 14 marzo 2020

I colori di Rimbaud (e l’orrore del tempo che dobbiamo riempire) di Mario Fresa



Mario Fresa inaugura un nuovo blog: paroleviventi.blogspot.com
che vi  invitiamo a visitare e dal quale abbiamo tratto il seguente testo


«A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu: vocali, / Io dirò, un giorno, i vostri segreti nascimenti: / A, nero mantello sul corpo di mosche rilucenti / Che ronzano intorno a orribili fetori, // Golfi d'ombra; E, bianchezze di tende e di vapori, / Lance di fieri ghiacciai, e re imbiancati, e tremori di umbelle; / I, porpora e spurgo di sangue, riso di labbra belle / nell’ira o nell’ebbrezza penitenti; // U, cicli, divine vibrazioni del verde mare, / Quiete di bestie ai campi, calma di rughe / Che l'alchimia suggella sull’ampia fronte dei sapienti; // O, Tuba suprema gonfia di stridi sconosciuti; / Silenzi squarciati da Angeli e da Mondi: / - O l'Omega, il raggio violaceo dei Suoi Occhi!» (Rimbaud, Vocali; 1871. Versione di M. F.). 
Un uomo che capisca che cos’è la saggezza non può che diventare insano. Chi usi la parola nel segno dell’arte vuole agire, soprattutto, contro la monocroma mediocrità di chi si ostina a utilizzare le forme del discorso come un astuto mezzo di scambio o, peggio, come utopistico strumento “sociale”, di mutua (e ipocrita) comprensione (ma poi dico: ci conviene davvero, questo ridicolo desiderio di conoscerci fino in fondo?). Ma la parola può, deve servire a ben altro (e non solo, certo, a fingere di intendersi…): dev’essere l’inizio di un ingrandimento e di una espansione della cosiddetta realtà (e di una protesta contro di essa). Come possiamo sentirci degni d’essere vivi, se non ci trasformiamo, almeno una volta, in un Orlando furioso che tenti di uscire dal mondo (e, dunque, da sé stesso), per viaggiare oltre e per vedere oltre; e per essere altro? 
Sia salva, la parola, per una volta, dall’inquinamento volgare e affaristico della lingua dell’ovvio; sia liberata (almeno per qualche istante, nell’eliso della musica o dei versi) dalla comunicazione degli scambi commerciali, dal vocabolario servile del buon senso, dell’utile, del calcolo opportunistico (lasciamola, questa orribile e ipocrita lingua degli scopi e delle convenienze, agli impiegati statali, ai commercianti, ai contabili, ai politici.) 
La parola deve diventare visione e stordimento e accrescimento delle nostre percezioni. L’occhio l’orecchio la lingua dovranno presto imparare nuovi colori nuovi suoni nuovi sensi, per poter sopportare, ogni giorno, il tartufesco inganno della vita sociale… Rimbaud ci spiega che perfino una singola vocale può (e deve) divenire altro da quel che ci hanno insegnato sempre. Tutto dev’essere o capovolto o ampliato o deriso o distrutto e ricreato: questo il messaggio-Verbo del grande poeta Veggente. Ciò che si vede è altro da ciò che pare; ed è altro ancora; ed è pure il suo rovesciamento, la sua antitesi, il suo disfarsi. I colori, nella follia felice del poeta, sono tutti attraversati da odori o da suoni o da immagini estreme, quasi impossibili da focalizzare, che fanno magicamente intendere la loro provenienza assoluta, sovrastorica, che s’oppone con fierezza al  Destino e alla stessa Natura (la nostra prima, mortale nemica); e solo così, trasformando l’occhio in uno strumento di amplificazione e di ribellione, di sovvertimento e di deviazione, potremo sperare di tenere in scacco la noiosa e deprimente vita che opprime chi non sappia immaginare, dietro una semplice vocale, l’eterna risplendenza di visioni di Angeli o di Mondi inconosciuti; e potremo così, infine, combattere, con un certo onore, il Tempo inutile, e impudico, e stupido che sempre ci fa più morti che vivi  (Julius Evola: «Ho l’orrore del tempo che debbo riempire».). Vita dell’arte, dunque, splendidamente fittizia, contro la vita reale, mortalmente caduca e falsa: nell’ebbrezza rimbaldiana, nella sua ardita trasmutazione del linguaggio e della medesima esistenza, si potrà forse trovare la strada di un momentaneo incantamento che possa, finalmente, restituirci la gioia di sentire non già la semplice vita, ma la sovrabbondanza e il superamento di essa. 

                                                                                          Mario Fresa

giovedì 5 marzo 2020

Marco Ercolani “Galassie parallele. Storie di artisti fuori norma” Il canneto editore, 2019




Nell’interessantissima perlustrazione compiuta da Marco Ercolani con il suo “Galassie parallele. Storie di artisti fuori norma” Il canneto editore, 2019, viene affrontato il tema della follia nell’arte per verificare se la sua presenza sia una costante. L’autore isola immediatamente il fulcro della questione, partendo dalla considerazione che “Una <> rende impossibile qualsiasi forma di arte perché uno stato di benessere è inerzia = da iners, non-arte. L’inquietudine è necessaria, come motore dell’ars, ma un eccesso di inquietudine, una <>, procura un dolore psichico che rende la vita invivibile e porta a fallimento qualsiasi espressione artistica”. Tuttavia, in moltissimi artisti si riscontrano psicosi e ossessioni. Quindi occorre anche affrontare il problema della follia in artisti che sono stati internati (Walter, Nietzsche, Campana, solo per citarne alcuni).
Con questa lucidissima bussola, Ercolani specifica che uscire dalla ragione, anche se solo temporaneamente, diversamente dallo psicopatico che non può più rientrarvi, è una soglia non superabile. Lo psichiatra genovese pare, pertanto, fissare un limite rispetto a coloro la cui alterazione emotiva è tale per cui o accettano se stessi e obliano il mondo o accettano il mondo annientando se stessi. Ma anche detta così, tale definizione non ritaglia un’area precisa di comportamenti. Per mostrarci che cosa sia l’arte e che cosa sia la follia, giustamente Ercolani, psichiatra e poeta, verifica le mille forme artistiche in cui la promiscuità sembra contribuire alla definizione di entrambe le caselle, ma sottolinea sempre che la forma artistica obbedisce a una volontà che ha nella forma la sua ultima parola. È proprio su tale versante, infatti, che le produzioni degli psicotici scivolano, uscendo dall’arte.

Ciò detto, resta che follia e malattia non sono definibili in modo scientifico, univoco e pertanto restano ampie chiazze di condivisione, zone di confine incerte e sovrapposte,  incursioni in terreni adiacenti e per tal cagione Ercolani si rende sempre meno sensibile ai due insiemi separati e maggiormente aperto verso le  concimazioni eterogenee. Ne sia testimonianza la definizione di “artisti fuori norma”. Ora è pur vero che gli artisti per definizione perlustrano territori non abitudinari, danno spazio a percezioni, fantasie, pensieri che assediano la loro esistenza, e che l’arte è una magnifica ossessione. Si dovrà perciò comprendere la difficoltà di tenere le briglie di due cavalli non legati fra di loro nell’analisi compiuta da Ercolani. Già Gianfranco Bruno con la sua mostra “La ricerca dell’identità” del 1974 al Palazzo Reale di Milano aveva introdotto nello spazio museale l’arte arcaica, l’arte infantile e l’arte di persone mentalmente instabili, ma Ercolani compie un ulteriore passo su questo spinosissimo terreno. Mentre Bruno, infatti, includeva le opere degli esclusi dalla società nelle sale di un museo, Ercolani ci aiuta a percorrere e a decifrare le distanze tra le espressioni del folle e le espressioni dell’artista.

D’altra parte, è proprio sul confine tra insiemi eterogenei che sembra abbattersi la distinzione fra diversi e, al tempo stesso, che si riesce a percepire ciò che è al di là dello steccato. Ercolani si posizionerà, nel perlustrare le produzioni degli artisti e degli psicotici, nelle due differenti prospettive. Certe incursioni nella follia come quelle caldeggiate da Nietzsche, il quale vede nella follia uno stato da ‘volere’ per penetrare nei “Regni dell’Irreale” coincide con l’esperienza di John Perceval il quale afferma che non avrebbe potuto ritrovare la salute con una condotta sana. Anche qui, pare che il discrimine sia nella capacità di entrare nel dominio opposto, ma la follia o lo stato di salute mentale non sono questione di volontà. Se “Il matto non gioca mai”, “l’artista gioca sempre”. Il matto sprofonda “irreversibilmente nelle proprie immagini psichiche”, la sua è una “follia senza ritorno”. 

La guarigione è definibile come  l’interregno nel quale lo psicotico riesce a trascrivere e non è più sotto dettato impulsivo: non subisce più le proprie allucinazioni. Ma finché ne è afflitto, diversamente dall’artista che “procede per tentativi ed errori, consapevole di sé e dei suoi strumenti”, e del fatto che “lo scopo del suo lavoro ha un preciso significato nella realtà”, l’artista psicotico “non cerca un pubblico e i suoi modi espressivi non mutano più”. Siamo forse vicinissimi all’osso della questione. Ercolani assomma le metafore che comunque legano le due modalità esistenziali e questo dà la misura di una certa aria di famiglia che comunque, sebbene a un diverso livello, lega di fatto le due esperienze. Far conoscere la numerosità e la profondità dell’insieme delle metafore comuni è il punto di forza di questo originale lavoro, senza peraltro che sia mai dimenticato che “Il folle parla sempre ed esclusivamente del suo dolore. L’artista, invece, non parla mai solo di sé”. Ciò che, alla fin dei conti, è importante è che l’artista, sebbene si muova dal suo dolore, sia capace di rendere la sua espressione una comunicazione universale. 

Marco Ercolani compie la sua analisi attraversando i vari generi espressivi: nella sua enciclopedia delle intersezioni, oltre che delle zone di confine, passa in rassegna la pittura, la scrittura, la scultura, l’architettura, la musica, ma riporta anche le testimonianze teatrali e cinematografiche che hanno voluto raccontare/ricordare le opere dei folli. Il suo alfine è paragonabile al viaggio di Ulisse negli Inferi: l’arte appare come “un’ombra” o “un sogno”, impossibile da afferrare, impossibile abbracciare i suoi incerti confini.


Rosa Pierno