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Rosa Pierno “Istoriato”, Gilgamesh Edizioni, 2020
Immagine in copertina di Stefano Iori
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I poeti medioevali associavano la gentilezza del cuore al sentimento amoroso e, ancor più, alla capacità di cantare d’amore stringendo così in un nodo strettissimo amore e poesia. Rosa Pierno conosce bene questo legame e l’ampia tradizione letteraria che ne deriva, l’attraversa con sicurezza, con l’agilità di chi sa osservare con uno sguardo nuovo.
Amore è protagonista di Istoriato che scompone i generi per essere un poemetto (sul modello caro alla tradizione francese), una poesia narrativa che esplicitamente dice di non avere una storia da raccontare.
L’architettura del libro si snoda in un Proemio e in un testo che assorbono dalla prosa la compattezza della scrittura che non va a capo e mutuano dalla poesia la struttura sintattica, che procede attraverso l’anastrofe, la musicalità di rime e assonanze, la preziosità di un lessico colto, interno alla tradizione della lirica amorosa. Ma è soprattutto la forza compositiva e immaginativa a segnare l’opera.
Già il titolo adombra un’ambiguità: istoriato è la figurazione di un fatto, è illustrare, rappresentare. Il fatto è l’eterna vicenda amorosa di due amanti, uniti e separati nel contempo, ma è una vicenda sul confine tra l’essere vissuta, dipinta, raccontata.
Questi tre livelli del fatto si mescolano nel Proemio e si chiariscono progressivamente nel testo. Anche se il titolo e alcune frasi come È la storia degli amanti dipinta su un fondale deporrebbero per una superiorità dell’immagine, non è importante stabilire quale di questi livelli sia preminente. Il nucleo del libro sta nel loro intreccio: i piani si mescolano, cadono uno nell’altro, si incuneano e si modificano continuamente. Rosa Pierno tesse tre fili mettendo in scena l’Amore, ma più profondamente il rapporto tra realtà e finzione, tra vita e arte, tra logico e illogico. Artificio (che è anche il titolo di una precedente raccolta poetica dell’autrice) è parola cardine che rimanda all’abilità tecnica, alla capacità artistica, a quella finzione così diversa dal falso.
Per questo, la struttura del testo è complessa, come nelle scatole cinesi si potrebbe ricostruire in questo modo: all’origine ci sono due amanti, i primi che hanno varcato il mondo oppure io e te, la storia del loro o del nostro amore diventa traccia dipinta su un fondale, su una stoffa di seta preziosa, questa infine diventa materia del racconto quando le parole cascano come fronde di salici piangenti e riempiono il vuoto del dipinto e della separazione. Tuttavia questa è solo una ricostruzione possibile, ordinata secondo un senso cronologico o secondo un grado ascendente di complessità: dalla realtà all’immagine alla parola. Ma l’Amore è contrario a ogni logica, al suo fondamentale principio di non contraddizione, alle sue leggi: Impossibile narrare la storia di una passione: non se ne può trarne alcun concetto e nemmeno legami di causa-effetto. Ogni ricostruzione è fallace. Infatti il testo si snoda attraverso coppie oppositive (qui si narra una storia d’amore / [Amore] non ha storia; furente / sereno; accorato / sordo; disio / ripulsa solo per citarne alcune), avanza attraverso un’impalcatura di ipotesi scandita da “o”, “oppure” e l’inquietudine dei punti interrogativi.
Tutte le ipotesi si possono scompigliare e poi riordinare secondo una qualsiasi regola o in maniera del tutto casuale. Ciò che si compone, ma anche si scompone, davanti ai nostri occhi, è un arabesco in cui ogni livello scivola nell’altro e lo trasforma. Così Rosa Pierno passa continuamente da un piano all’altro sia nel tessuto dei contenuti (gli amanti fin dall’inizio amano dipingersi, sprofondare l’uno nel corpo dell’altro aggrappandosi ai nodi delle stoffe dipinte, alle parole che dondolano con l’affannato respiro) sia nell’impasto di più soggetti logici: la prima singolare, io, e la terza plurale, gli amanti, soprattutto. Continuamente si è sbalzati da un piano personale (l’identificazione è forte quando il lettore legge io) ad uno più generale.
Si ricostruisce la scena (reale, dipinta, narrata, vissuta, sognata, individuale, collettiva) mediante gli attori che la subiscono e l’agiscono. C’è l’io che è soggetto lirico, riflesso identitario del lettore (perché io è di chi lo dice), ombra dell’autrice che si specchia anche nelle espressioni come scrittrice che però è già un altro attore, un’altra funzione. Ci sono gli amanti persi e ritrovati nella vicissitudine amorosa fatta di acquisizione e mancanza, di un equilibrio sempre precario tra verità e menzogna, tra dolore e gioia, tra l’esultanza e la stanchezza dei sensi. Ci sono gli spettatori che sono i lettori che entrano nella storia anziché osservarla soltanto. Ci sono le figure mitiche di Euridice e Psiche che ci ricordano che l’amore è fatto soprattutto di voce e sguardi. I poeti sanno che l’amore passa attraverso gli occhi e sussurra sospirando. La voce a Euridice viene sottratta: lei segue muta Orfeo nel cunicolo desolato degli Inferi che l’amato ha attraversato per riscattarla dal suo destino di morte. Lo sguardo dell’innamorato che dovrebbe salvarla la uccide una seconda volta: Euridice scivola all’indietro ripiombando nell’ombra. A Psiche è sottratta la vista: Eros non si svela, la ama appassionatamente solo nelle tenebre della notte. Lo sguardo di lei, che alla luce della candela contempla la bellezza del suo amante, è fatale all’amore: Eros l’abbandona e solo dopo lunghe traversie Psiche si potrà ricongiungere a lui. Infine, ci sono Amore, Passione, Ragione, soggetti individuabili attraverso la personificazione, entità che accompagnano la vicenda degli amanti, in guerra l’una con l’altra, pronte a distruggersi o a sorreggersi. Amore può sprofondare nel disamore, Passione non si sottomette alla ragione, Ragione ama la perversione.
Tutti questi attori intrecciano le loro storie poiché Istoriato è il testo privo di omogenea narrazione, il quale raccoglie i fili e li riannoda e altrove li slega per vederli nuovamente scorrere nel fiume, fluidamente. I fili si annodano e si sciolgono grazie all’assoluta potenza del caso: ogni minimo particolare, trascorrendo da un piano all’altro, inserisce una variazione che finisce per mutare la storia, il dipinto, il racconto. Per questo la storia non è una storia, è la volubile mutevolezza del caso non contenibile in un racconto che abbia capo e coda. Persino gli spettatori-lettori si affacciano nella storia, si annoiano, si posizionano, mutano e vengono mutati. Si scorge la lezione ariostesca filtrata attraverso Calvino: ogni personaggio trasforma la storia, non è mai spettatore inerte. I confini si fanno permeabili.
Ad Ariosto rimanda anche il lessico relativo allo spazio, elemento narrativo fondamentale anche se siamo dentro una non-narrazione o meglio dentro una narrazione che confessa l’impossibilità di narrare. Lo spazio è un labirinto, dove si corre a vuoto e si torna insistentemente al punto di partenza. All’insensatezza del movimento che finisce per coincidere con l’immobilità, col paradosso in cui tutto cambia tornando su se stesso (e questo allude anche alla ripetitività dell’amore che da secoli ha sempre la stessa parabola eppure è nuovo ogni volta), corrisponde l’assenza del tempo perché Se è un racconto senza tempo, non te ne puoi definitivamente andare.
Così si dispiega la potenza dell’Amore, che è in fondo la potenza del caso, la possibilità del cambiamento perché chi non sappia all’amore abbandonarsi, morir non sa, né storia terminare.
Enza Silvestrini