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domenica 26 gennaio 2020

Franco D’Antuono: la pelle della carta




Le tre carte incise di Franco D’Antuono sono monumentali non tanto per la dimensione, quanto per la potenza iconica che sprigionano. La sola loro presenza crea uno spazio di rarefazione, di silenzio, che ci accoglie come una cattedrale. Non è soltanto l’immacolata delicatezza del bianco a determinare la zona neutra, lo spazio riservato e raccolto che emana dalle carte, quanto la scoperta di una calligrafia senza lettere, di una campitura del foglio che non lascia intonso se non uno strettissimo bordo e che si erge come qualcosa che reclama una decifrazione, pur essendo solo una serie ritmica di marche. 

Il ritmo è cifra simbolica. Istituisce una chiave di lettura che sorpassa le consapevolezze razionali per intridersi d’interiorità e far scattare alcuni grimaldelli. È un codice che appartiene al cosmo come all’essere umano. Il ritmo, calibrato con una manualità sapiente ed allenata, solca la carta, ne contrae o ne lascia intonse le fibre, facendoci riscoprire il ritmo che scandisce  il nostro respiro. Qualcosa di pre-verbale e, al tempo stesso, di superbamente iconico, quasi come se solo dalla presenza della prima si potesse accedere e installarsi nella seconda.

La serie delle carte realizzata nel 1990 s’intitola “Sulla pelle”, come se lasciasse fuoriuscire dai tagli inferti col bisturi luce in forma fluida, plasma vitale. La colatura luminosa sembra bagnare le incisioni e, a sua volta, vi defluisce. La realizzazione di una simile opera nasce da una progettazione e da un allenamento che si rivela necessario affinché il gesto sia scorrevole e preciso, uguale, avente la medesima intensità. Il tempo scandito dal ritmo delle incisioni richiede perentoriamente di coincidere con il tempo dell’adesione all’opera, ecco perché dicevamo che, sia nel realizzarla sia nell’atto della fruizione, è necessario divenire una sola cosa con la scansione visiva determinata dalla segnatura procurata dal bisturi.

Le tre carte mostrano una diversa tessitura di segni incisi. Un certo sapore orientale spira tra di esse per la cura e l’attenzione portate al materiale e al gesto che lo trasforma, ma esse sono anche profondamente innestate nella tradizione occidentale che marca le distanze tra verbale e icononico.

Il segno non è certamente il prodotto di una macchina. La concentrazione per effettuare un tale lavoro coincide con un vuoto procurato dentro di sé: non è infatti questo un lavoro che si possa compiere nei ritagli di tempo. Richiede una dedizione mentale e fisica che la carta ci restituisce, reclamandone altrettanta da noi che ci accingiamo a comprenderla.

Un elemento fondante dell’immagine è il rapporto fra figura e fondo con il fondo/superficie che diviene figura, instaurando una scultura al suo minimo grado, poiché tutta basata sulle evenienze della superficie, sull’intercettazione di una luminosità che a tratti schiva il foglio e a tratti ne rimane intrappolata. La figura è la superficie stessa lavorata ad intaglio e consiste nell’alterazione ritmica della superficie. 

Cavare le interiora di una superficie sarebbe azione paradossale se non si rivelasse concretissima. Scopriamo che anche la bidimensionalità di un materiale è un concetto da non accettare in maniera dogmatica. In arte, e solo in arte, pare possibile sfondare, pertanto, le usuali convenzioni.


                                                                                Rosa Pierno

domenica 12 gennaio 2020

Mario de Candia sulla mostra “Natura umana” di Paolo Di Capua presso l’Istituto italiano di cultura a Rabat, dal 9 gennaio al 28 marzo 2020.




La mutazione e la variazione sono l’unica costante della realtà , con essa anche dell’arte, della quale non rappresentano altro che la fattispecie di uno specchio, magico se si vuole, sulla cui superficie sguardo e oggetto si incontrano trasformando un immagine in visione. 
Variazione e mutazione sono per Paolo Di Capua la necessaria rappresentazione evolutiva di un immagine in movimento, quindi viva e, per sua natura intrinseca, instabile: la scultura di PDC parla di “visione”; si concentra sull’aspetto in divenire della forma che la stessa visione inscrive al suo interno; pensa l’esperienza reale con la materia, facendola vibrare attraverso la luce e così consegnandola, hic et nunc, allo sguardo. Tutto ciò in assoluta sintonia con quell’esperienza artistica della metà del ‘900 che ha contribuito alla formazione di un pensiero elastico e più preciso, pronto alle mutazioni della realtà, attento alle trasformazioni delle forme e a come una “cosa” si tramuta in un'altra. Secondo l’artista, l’opera d’arte vive in quanto parte di un processo infinito che inquadra la mutazione e la variazione come prerogativa stabile della scultura.
Le sue opere esistono in un continuum spazio-temporale, ma sottoposte ad un processo di variazione, tanto discreta quanto determinata e costante. Tale variazione è messa in atto non solo attraverso un un evolversi in fieri dell’opera stessa; ma anche attraverso il suo dialogo con l’ambiente circostante: il significato dell’opera e la sua interazione col pubblico variano anche e necessariamente a seconda del contesto nel quale questa viene esposta.
Basato sulla “ripresa” di elementi lessicali consimili, questo continuo variare genera una frammentazione della percezione. La scultura in questo modo assume infinite potenzialità che non complicano, né tanto meno semplificano l’esperienza cognitiva dell’osservatore, ma anzi la organizzano. È così che la materia che l’autore ha tra le mani diviene essa stessa mutevole e non sente il bisogno di necessariamente approdare ad uno stato o stadio definitivo rispetto al tempo e/o allo spazio. La nozione secondo cui il lavoro dell’arte è un processo irreversibile che sfocia in un oggetto-icona statico non è più una preoccupazione primaria: l’arte viene piuttosto rifocalizzata come energia tesa a condurre ad un cambiamento di percezione.
L’attenzione che Paolo Di Capua rivolge sia alla materia sia alla sua inseparabilità dal processo non vuole affatto enfatizzare i mezzi, ma suggerire e rafforzare l’idea che l’arte stessa è un’”attività” di cambiamento, di disorientamento e di dislocamento, di discontinuità e mutabilità: una ricerca volontaria della “con-fusione” insita nella natura umana, in funzione, anche, della scoperta e sollecitazione di nuove modalità percettive del mondo.
La scultura, con PDC, non è un’icona, non è un’entità statica, non può essere delimitata né materialmente né concettualmente. I suoi confini non sono stabili e stabiliti da quel “a tutto tondo” che pur essa contempla e pratica. L’attenzione è nella ricerca, nel processo, nella tenace esplorazione di forme della visione. 
Attraverso tale elaborazione creativa, le sue opere acquisiscono una profondità ed una stratificazione che abbraccia la causalità e manipola la luce per aprire uno spiraglio su un’altra dimensione, sulle molteplici storie che racchiudono. È evidente che tali opere non intendono spiegare la realtà, ancor meno rappresentarla, bensì proporre dei suggerimenti, degli inviti alla scoperta. Ma anche riprendono la questione annosa della ricontestualizzazione generale dello statuto dell’osservatore così come del “luogo” dell’osservatore moderno pensato dall’”arte”.
In un momento storico di ingorgo tecnologico, di traduzione dei codici linguistici in codici visivi, di produzione di immagini a livello incontrollabile e di pratiche visive che hanno soppiantato quelle tradizionali, Paolo Di Capua si interessa alla vita di “una” immagine, suo progetto da decenni, in tutti i suoi mutamenti e possibilità di forma, senso, direzione e significato in stretta relazione con la posizione di un osservatore in un mondo reale. In questo senso, le sue opere possono essere guardate come parti, “frammenti”, che fanno parte di una sequenzialità ininterrotta, o come si usa dire di uno stesso racconto interminabile.
Come qui le vediamo, le parti che compongono il lavoro possono essere guardate come varianti di una parte precedentemente esposta, come quasi delle “riprese” musicali. Tutte originali nella loro unicità, tutte al contempo legate ad una visione iniziale, primigenia, unitaria; tutte sintoniche alla concezione attuale che guarda alla scultura quale disciplina elastica, viva e investigativa e come “questione” in divenire, sempre volutamente incompiuta nella sua pur fisica compiutezza.


                                                                              Mario de Candia

giovedì 2 gennaio 2020

“Ripetita”, libro-scultura di Vito Capone, 2019

Libro-scultura di Vito Capone, “Repetita”, in carta riciclata fatta a mano, sagomata e scolpita, colorazione vegetale, ottobre 2019, 23x26,5x8,5

Un libro è sempre anche un monumento: racchiude un sapere specifico e spesso rimanda a un sapere perduto. E ancor più il libro antico, il quale, ammantandosi delle profondità intestine della storia, diviene quasi una concrezione, che, mista a polvere, stratifichi plurime direzioni di senso.
I libri di Vito Capone rappresentano il libro in quanto forma inseparabile da un contenuto, anche quando questi ultimi siano illeggibili e le pagine non siano separabili. Essi ci ricordano che il libro antico sfiora l’unicità del libro d’artista con la sua intangibilità, i suoi tarli, le sue macchie, il suo mistero, evocando tutti i libri del mondo.

Repetita, uno dei lavori eseguiti nel 2019, in carta riciclata fatta a mano, sagomata e scolpita, avente colorazione vegetale, è un libro già aperto su pagine in parte strappate, con un’imponderabile testo; vergato a scalpello nella carta, si direbbe.
Le pagine conservano il moto della mano che le ha sfogliate, hanno raggelato l’attimo, rendendolo marmoreo.
Con le grinze procurate dall’umidità, la cui presenza è oramai  percepibile solo attraverso i danni procurati alla materia, e le parole che fuoriescono dalla tumultuosa carta, anche la lettura è come rappresa. Il lettore ha la sensazione che leggere sia un atto perdurante, che non si possa dismettere e che nemmeno si possa effettuare. Sorta di sacro recinto determinato dalla sua stessa presenza, nel quale si rimanga prigionieri. I libri irretiscono e nessuno sa farlo meglio dei libri di Vito Capone, poiché divengono emblemi di una cesura fra naturalezza e artificio!

I libri-biblioteca dell’artista pugliese non si possono sfogliare e non danno la possibilità di essere aperti. Dichiarano che ciò che si può evincere è tutto esposto e che il mistero è il vero cuore dei volumi.
Oggetto fragile ed eterno, insieme, che se dispare lascia un vuoto che è  segno. È un libro simbolo che vale un’intera biblioteca e lo immaginiamo accampato in una teca all’ingresso delle biblioteche storiche, sorta di avvertimento: “Hic sunt leones”.

Il taglio preciso, in diagonale, che percorre le pagine aperte, mostra un bordo irregolare che non corrisponde al taglio, come se la carta fosse proliferata, vero e proprio organismo vivente, per ricostituire l’unità perduta. La polpa / scrittura schiumeggia, s’arroga il diritto di divenire volume, al pari delle magnifiche incisioni lapidee della scrittura cuneiforme sulle quali vorremmo far scorrere la mano. Il visivo si rovescia in tattile, la carta generalmente morbida, qui presenta una rigidità monolitica, la scrittura è anche tridimensionale. Il libro di Vito Capone opera una serie di cambi di passo che trasformano l’oggetto quotidiano in oggetto da conoscere, che vale a prescindere dal suo scopo. E la conoscenza, si sa, è la più chimerica delle nostre imprese!


                                                                        Rosa Pierno