La voce di Bruno Di Pietro, nel suo ultimo lavoro poetico Baie, Oèdipus, 2019, quella sua più intima, si eleva spossata e provata di fronte al mare. È certamente una voce che parla da una posizione esistenziale avanzata, quella da cui si potrebbero voler tirare le somme dell’avere dato, dell’avere avuto.
Il tempo dell’infanzia coincide con il tempo privo di battiti, quello degli dei, e ciò fa scoprire al poeta che la pienezza umana non è un altrove. Eppure è condizione non ancora compresa nel tempo adulto, quando ancora pareva che le parole mancassero, che ci fosse un “non ancora”, qualcosa di irrealizzato che richiedeva a gran forza di agire per agire.
Fra mancanze e cose non andate per il verso giusto, nell’età tarda, probabilmente non è nemmeno possibile una conta. Ciò che è mancato resta come scolpito in negativo, un calco ingombrante, da cui bisogna prendere congedo, senza che si sia mai potuto modellare a proprio piacimento. Restano, però, i desideri ancora vivi e reclamanti. I ricordi e le percezioni divengono presenti, materia non classificabile in alcun modo.
Un battito, un respiro continuo, quello del mare che si solleva e cala come fosse l’onda dei propri pensieri: “l’odore della sponda incanta / l’onda cala / si allontana il mare”. E sul ritmo dell’onda pare conformarsi anche il ritmo poetico con una versificazione che si espande e si ritrae come l’acqua sulla battigia: “chi ama / non dispera / (dimmi una bugia / ma che sia vera)”.
Il resoconto esistenziale si rivela ben presto impossibile da portare a termine; le voci interiori e le visioni divengono battenti, riempiono ogni slargo, trascinano in luoghi totalmente ideali, dove il dialogo con l’altro, con la sua mancanza indefinita, diviene centrale. L’assenza sofferta è divenuta offerta veemente. L’incalzante voce di Di Pietro non le lascia tregua, non le chiede di farsi corpo, ma pretende le risposte non avute.
Ben presto è il mare a divenire il vero interlocutore, o comunque a fungere da battitore doppio:
porta la tua voce ignoti suoni
apre fughe profonde
(allude riparo alle tue sponde)
ove l’uso di parentesi è segno di una replica a se stesso, sorta di controcanto, nascente da una consapevolezza disillusa. Se si illuse, il poeta, fu in ogni caso consapevole delle proprie illusioni.
Con un pacato ragionamento a posteriori, la proiezione del presente sul passato rovescia i termini prospettici: lì dove la giovinezza ha preteso irruenza, ora le parole sono piane e gli amanti, poiché l’amore e la più divina delle esperienze, possono rivolgersi parole sagge, di copioso miele. Un miracolo si compie:
amo ascoltare la tua bellezza
nella voce che è acqua e vento
sento la fresca essenza della brezza
l’odore del sale l’attesa dell’evento
L’altrove è il luogo ritrovato, luogo delle unioni impossibili eppure realizzate, cortocircuito temporale, dove il passato si fa evento presente. Immagine idilliaca sottolineata da un rincorrersi delle rime che rende levigato lo scorrere dell’immagine onirica, discosta ora dal rumore delle onde.
Non può durare, e lo si avverte proprio dalla sonorità che si fa più aspra e franta. Ritornano le immagini reali, della sparizione immotivata, di una storia che non è stata, e non per questo è meno dolorosa. L’amore è davvero ciò in cui riassumere una vita, ciò che travolge il tempo, mentre la sua assenza lo fa dilagare. Scrivere di amore, fosse pure relegato nel passato, vuol dire scrivere dell’unico “repertorio dell’eterno”.
Un certo cinismo relativo al racconto di esperienze incompiute o infelici, in vista del volgere della parabola esistenziale, completa una silloge con ironiche briciole testamentarie: “l’odore del disfacimento / sono cose smisurate / (darò un avvertimento)”, mentre sempre più trancianti si faranno i virtuali dialoghi. Una brevità che ha la sintesi densissima di un epitaffio. Se è possibile un ritorno, esso coincide con il ripercorrere i dolci frutti della rimembranza. Il mare di notte confonde i pensieri di tutte le cose che non tornano.
in un altrove aereo o marino
forse nell’ultimo lembo di terra
al confine di ogni pensabile destino
ai margini sconfinati di un deserto
nell’incerto che inclina alla speranza
noi ci ritroveremo
allora sarà detta la parola giusta
quella che fugge la noia dell’indicibile
daremo altro nome a tutte le cose
liberi dalla paura di morire,
esaurito ogni dove, di esaurire ogni dire
L’indicibile, l’invisibile, messi con le spalle al muro, sono costretti a dire e a farsi vedere. L’altrove è la zona in cui entrambi sono costretti a venire a patti, a divenire concrete monete di scambio. Non c’è più tempo per concetti inafferrabili, tutto il consueto viene dismesso: c’è già l’amore, la sfuggente preda, a cui dare la caccia, da afferrare prima di non essere più. L’amore, che deve restituire alla vita il suo vero peso, è l’ultima delle chimere per Bruno Di Pietro, che seppure l’afferrerà per diffrazione, come un’eco, avrà comunque posato sulla bilancia una cornucopia di poesie.
Rosa Pierno