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domenica 24 novembre 2019

Bruno Di Pietro “Baie” Oèdipus, 2019




La voce di Bruno Di Pietro, nel suo ultimo lavoro poetico Baie,  Oèdipus, 2019, quella sua più intima, si eleva spossata e provata di fronte al mare. È certamente una voce che parla da una posizione esistenziale avanzata, quella da cui si potrebbero voler tirare le somme dell’avere dato, dell’avere avuto.
Il tempo dell’infanzia coincide con il tempo privo di battiti, quello degli dei, e ciò fa scoprire al poeta che la pienezza umana non è un altrove. Eppure è condizione non ancora compresa nel tempo adulto, quando ancora pareva che le parole mancassero, che ci fosse un “non ancora”, qualcosa di irrealizzato che richiedeva a gran forza di agire per agire.

Fra mancanze e cose non andate per il verso giusto, nell’età tarda, probabilmente non è nemmeno possibile una conta. Ciò che è mancato resta come scolpito in negativo, un calco ingombrante, da cui bisogna prendere congedo, senza che si sia mai potuto modellare a proprio piacimento. Restano, però, i desideri ancora vivi e reclamanti. I ricordi e le percezioni divengono presenti, materia non classificabile in alcun modo.
Un battito, un respiro continuo, quello del mare che si solleva e cala come fosse l’onda dei propri pensieri: “l’odore della sponda incanta / l’onda cala / si allontana il mare”. E sul ritmo dell’onda pare conformarsi anche il ritmo poetico con una versificazione che si espande e si ritrae come l’acqua sulla battigia: “chi ama / non dispera / (dimmi una bugia / ma che sia vera)”.

Il resoconto esistenziale si rivela ben presto impossibile da portare a termine; le voci interiori e le visioni divengono battenti, riempiono ogni slargo, trascinano in luoghi totalmente ideali, dove il dialogo con l’altro, con la sua mancanza indefinita, diviene centrale. L’assenza sofferta è divenuta offerta veemente. L’incalzante voce di Di Pietro non le lascia tregua, non le chiede di farsi corpo, ma pretende le risposte non avute. 
Ben presto è il mare a divenire il vero interlocutore, o comunque a fungere da battitore doppio:

porta la tua voce ignoti suoni
apre fughe profonde
(allude riparo alle tue sponde)

ove l’uso di parentesi è segno di una replica a se stesso, sorta di controcanto, nascente da una consapevolezza disillusa. Se si illuse, il poeta, fu in ogni caso consapevole delle proprie illusioni. 
Con un pacato ragionamento a posteriori, la proiezione del presente sul passato rovescia i termini prospettici: lì dove la giovinezza ha preteso irruenza, ora le parole sono piane e gli amanti, poiché l’amore e la più divina delle esperienze, possono rivolgersi parole sagge, di copioso miele. Un miracolo si compie: 

amo ascoltare la tua bellezza 
nella voce che è acqua e vento 
sento la fresca essenza della brezza
l’odore del sale l’attesa dell’evento

L’altrove è il luogo ritrovato, luogo delle unioni impossibili eppure realizzate, cortocircuito temporale, dove il passato si fa evento presente. Immagine idilliaca sottolineata da un rincorrersi delle rime che rende levigato lo scorrere dell’immagine onirica, discosta ora dal rumore delle onde.

Non può durare, e lo si avverte proprio dalla sonorità che si fa più aspra e franta. Ritornano le immagini reali, della sparizione immotivata, di una storia che non è stata, e non per questo è meno dolorosa. L’amore è davvero ciò in cui riassumere una vita, ciò che travolge il tempo, mentre la sua assenza lo fa dilagare. Scrivere di amore, fosse pure relegato nel passato, vuol dire scrivere dell’unico “repertorio dell’eterno”.

Un certo cinismo relativo al racconto di esperienze incompiute o infelici, in vista del volgere della parabola esistenziale, completa una silloge con ironiche briciole testamentarie: “l’odore del disfacimento / sono cose smisurate / (darò un avvertimento)”, mentre sempre più trancianti si faranno i virtuali dialoghi. Una brevità che ha la sintesi densissima di un epitaffio. Se è possibile un ritorno, esso coincide con il ripercorrere i dolci frutti della rimembranza. Il mare di notte confonde i pensieri di tutte le cose che non tornano.

in un altrove aereo o marino
forse nell’ultimo lembo di terra
al confine di ogni pensabile destino
ai margini sconfinati di un deserto
nell’incerto che inclina alla speranza

noi ci ritroveremo

allora sarà detta la parola giusta
quella che fugge la noia dell’indicibile
daremo altro nome a tutte le cose
liberi dalla paura di morire,
esaurito ogni dove, di esaurire ogni dire
                                                              
L’indicibile, l’invisibile, messi con le spalle al muro, sono costretti a dire e a farsi vedere. L’altrove è la zona in cui entrambi sono costretti a venire a patti, a divenire concrete monete di scambio. Non c’è più tempo per concetti inafferrabili, tutto il consueto viene dismesso: c’è già l’amore, la sfuggente preda, a cui dare la caccia, da afferrare prima di non essere più. L’amore, che deve restituire alla vita il suo vero peso, è l’ultima delle chimere per Bruno Di Pietro, che seppure l’afferrerà per diffrazione, come un’eco, avrà comunque posato sulla bilancia una cornucopia di poesie.


                                                          Rosa Pierno



domenica 10 novembre 2019

“Arte e arti. Pittura, incisione e fotografia nell’Ottocento” presso la Pinacoteca Cantonale di Züst a Rancate (Mendrisio) dal 20 ottobre al 2 febbraio 2020





Che l’Ottocento sia secolo denso di scoperte entusiasmanti e prolifico al punto da gettare le basi per i movimenti più importanti degli inizi del Novecento è tema caro a Matteo Bianchi, il quale è curatore della mostra, con la collaborazione di Mariangela Agliati Ruggia e di Elisabetta Chiodini: “Arte e arti. Pittura, incisione e fotografia nell’Ottocento”, che si tiene presso la Pinacoteca Cantonale di Züst a Rancate (Mendrisio). Il museo offre sovente panoramiche ragguardevoli su questo secolo controverso, testimoniandone la ricchezza e la fertilità degli apporti, ma, in particolare, la presente esposizione ha un impatto fortemente conoscitivo, poiché indaga le relazioni che si sono instaurate tra pittura, incisione e fotografia e indica come la pittura e l’incisione siano cambiate dopo la comparsa della fotografia nel 1839.
La mostra documenta, dunque, con una ricca serie di documenti storici, artistici e tecnologici, come fu recepito l’ingresso della fotografia nel mondo dell’arte, non escluse le vignette umoristiche di Nadar o le testimonianze letterarie, fra le quali spicca quella di Baudelaire che ironizza sulla sua esaltazione, esprimendo forti riserve sul nuovo mezzo. 

Se i linguaggi sono irriducibilmente diversi, la loro capacità di dialogo però sorprende, dando luogo a reciproche influenze e imprevisti sviluppi. Non solo la pittura accentua la sua capacità di creare parvenze, ma anche l’incisione, che fino a quella data era in massima parte legata alla riproduzione delle opere d’arte, si apre a un mondo d’invenzione. D’altra parte, come racconta Pietro Sarto “La fotografia è nata nell’atelier dell’incisore e non lo ha mai lasciato del tutto” poiché deriva, in particolare, dalla scrittura della luce insita nell’eliografia. La fotografia, grazie a questa vicinanza, tende, a sua volta, a tradurre la realtà attraverso la sensibilità pittorica. Pertanto, la fotografia, fin da subito, si eleva all’altezza dell’arte come recita la didascalia della celebre litografia di Daumier che coglie uno svolazzante Nadar in atto di fotografare i tetti di Parigi, al modo in cui la pittura ha l’agio di svincolarsi dall’obbligo della mimesi, grazie alla nuova tecnica.

“La riproduzione dell’immagine e l’azione della luce senza l’intervento della mano, sono tratti specifici del carattere della fotografia” come ci spiega il curatore, ma sono anche la via attraverso la quale l’incontro tra incisione e fotografia si realizza nello spazio ideale rappresentato dal cliché-verre, di cui si possono ammirare in mostra i rarissimi esemplari: in essi si scorge “lo scambio linguistico dell’autografia, dell’eliotipia e in particolare della litografia con la fotografia”. Fra i suoi massimi interpreti si trovano “Corot e Daubigny, con prove di passaggio compiute in parallelo ai dipinti” e che, presenti in mostra, consentono di ammirare la facilità e l’immediatezza del segno (Corot preferisce, infatti, disegnare su vetro che incidere su rame). Un’approfondita escursione attraverso l’arte francese ci fa intravedere il laboratorio in cui Vallotton, Daumier, Corot, e i pittori di Barbizon elaboravano i propri temi, seguendo dappresso lo sviluppo delle possibilità offerte loro dal mezzo  fotografico.

La fotografia si dichiara subito alleata dei pittori e, anzi, da essi stessi è spesso realizzata, naturalmente non solo quando la tecnica viene utilizzata nel modo più lineare e diretto, qual è quello di un’indagine sul vero per lo studio delle luci e delle ombre o per fermare i dettagli, come accade in Umberto Dell’Orto o come, in Achille Tominetti, il quale, inoltre, cataloga il proprio lavoro, divenendo egli stesso in grado di stampare e sviluppare in autonomia i propri negativi. Lo scarto tra la fotografia e la pittura dona l’opportunità ai fruitori della mostra di cogliere con un solo colpo d’occhio la distanza tra le due forme espressive, ma anche la loro complementarietà: a volte la fotografia si struttura quasi come uno scheletro del manto pittorico. Fissare i dettagli, come fa Francesco Paolo Michetti è azione resa più facile dalla fotografia, la quale offre una grande varietà di visioni dal vero che spesso l’artista sussume in un’unica immagine. Quest’ultimo utilizza una macchina fotografica stereoscopica attento com’è alla restituzione tridimensionale dei corpi pur nella bidimensionalità della pittura.
Giovanni Segantini si serve della riproduzione fotografica per variare il motivo originario iterando in una serialità discontinua i molteplici valori chiaroscurali. Scegliere l’inquadratura del soggetto pittorico, e attraverso la fotografia verificarne la validità, è un’esigenza avvertitissima da Pietro Chiesa. Un uso assiduo del mezzo viene fatto da Filippo Franzoni, traendone suggestioni che appaiono importanti per lo sviluppo della sua pittura, soprattutto in vista della maggiore importanza data ai rapporti tonali e della minore importanza data ai dettagli o quando, come accade nei suoi ritratti, utilizza, nel fotografare, un’illuminazione che produce forti contrasti e che rivela nella resa pittorica una marca fortemente espressiva. Anche per numerose opere di Luigi Rossi, l’uso dell’immagine fotografica si rivela mezzo di studio e di interpretazione del reale, ma egli non ne sfrutta le possibilità di mimesi, bensì amplia la divaricazione esistente tra visione reale e visione ideale: quest’ultima incuneando una narratività e un’empatia di forte impatto rispetto al mero dato fotografato.
La fotografia entra anche come suggeritore di tagli orizzontali per quel che riguarda i paesaggi, nei quali i borghi lacustri o le catene di monti o gli ampi pascoli sono colti specialmente in modo frontale, dando luogo a panoramiche coinvolgenti, come nel caso di Filippo Carcano. Giuseppe Pellizza  da Volpedo, invece, utilizza l’immagine fotografica come verifica ambientale per i suoi paesaggi, esplorandone la complessità luminosa e cromatica.

A loro volta, dunque, gli artisti divengono fotografi,  cercando di enfatizzare, attraverso l’ausilio di tale mezzo, gli effetti di luce capaci di rendere abbacinante il candore delle camicie delle popolane o setose le loro trecce, rincorrendo, dunque, una restituzione che s’apparenta alla pittura. Attraverso i tagli prospettici inusuali (la donna ritratta di tre quarti che occupa una soglia) e l’indagine sugli arditi contrasti, le foto scattate dai pittori registrano poco del reale e quindi il pubblico è restio ad acquistarle; al contempo, la pittura si volge all’inseguimento dei più flebili bagliori, dello scorrimento della luce attraverso modulazioni infinitesime, come nel caso di Federico Faruffini. Un valido supporto la fotografia lo fornisce anche per la ricerca della spontaneità delle pose, che, come Camillo Boito notò per Eleuterio Pagliano, “riproduce la natura senza discuterla né correggerla”. Le fotografie vengono utilizzate dagli artisti per cogliere alcune tipicità prelevate dal vero, per trasferire l’aspetto verosimigliante e il moto della figura nella scena del dipinto, che, ad esempio, Luigi Monteverde è attento a restituire pittoricamente.

Appare ancora più utile l‘apporto della fotografia, quando, anziché dal disegno, dal modellato e dal colore, la figura nel suo ambiente si trasforma in macchie, luci e cromìe, così come perseguito da Giuseppe Barbaglia. Oppure quando, Pompeo Mariani cambia l’impaginazione fotografica smontandola e ricomponendola e trasferendo il risultato dello studio nel disegno e nel  quadro in mostra.
In tale fittissimo dialogo lo scambio diviene fecondo, generando un’attenzione portata con urgenza verso gli aspetti del visibile e del percepibile e in tal guisa i due mezzi non divengono contraddittori o antagonisti, ma si supportano, tastando i vicendevoli limiti e sviluppando ulteriori possibilità espressive. L’accuratissimo catalogo, edito da Skira,  dettaglia, spiega e documenta e si offre come strumento di riflessione e studio per una miniera di immagini che non è sufficiente vedere una sola volta.


                                                                                  Rosa Pierno