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sabato 26 ottobre 2019

Visione senza luce, poesia inedita di Giorgio Bonacini





                            

Visione senza luce


Immemore 
in un tempo raggelato 

Inaffidabile tempesta 
sregolata 
ma scandita
in un’ipotesi di luce sempre giù 
nel giù più scarno. 

Navigando ne misurano la voce  
poi dimenticano 
il peso della voce

Allora giù  
fermi a una forma tempestiva 
che resiste 
al buio nudo 
buio avverso che non lascia

Segni tracce esitazioni
ascolto tutto 
perché tutti gli animali sono al buio 
che ci ascoltano nel tutto

Prepariamoci a contare le parole 
a riconoscere gli accenti 

Gli animali sono stanchi 
il sogno è perso 
i sassi gonfiano 
le piante e sono nubi sono grandi


                                  Giorgio Bonacini
                                      


Le parole diventano di pietra se le produce il dolore, non scalfibili, forse solo ripetibili per dire quel poco che se ne può dire, in quella forma scolpita, fissa che le rende non vane e non precarie. Sono parole a lungo covate, quasi il risultato di una lunga fase di sedimentazione, di una premeditazione capace di rendere ciascun vocabolo un atto insostituibile. Giorgio Bonacini, in questa sua recentissima poesia, inedita, Visione senza luce, ha forse ottenuto l’effetto contrario: rendere lampante la finitezza del dolore. 


In tale affresco, illuminato a giorno, giacché il poeta ottiene l’effetto opposto, contrario alla situazione ignota, di cui si preavvisano solo alcuni segni premonitori, ma che sono già sufficienti a illuminare lo stato del vivente, le parole appaiono essere la salvezza, la possibilità di dire e di comunicare, di comprendere se stessi e gli altri. Ogni più piccolo segno o avvenimento può essere tramutato in lapidea parola. Anche se la serenità quotidiana è franta e incombe un minaccioso evento, di cui l’ambiente si fa messaggero – quella natura a cui siamo intimi ed estranei – il linguaggio si fa diga e setaccio, è monumento della precarietà e irruzione nell’eterno.

                                                                                             Rosa Pierno

domenica 13 ottobre 2019

Il libro scolpito di Franco D’Antuono, con sei haiku di Zanzotto, Edizioni arte in Orolontano, 2005


“Poppies”, libro d’artista con sei opere originali di Franco D’Antuono e sei haiku di Andrea Zanzotto, edizioni arte in orolontano, 2005

Franco D’Antuono presenterà il suo lavoro presso il MACRO Asilo dal 12 al 17 novembre 2019, Atelier, sala 4

Il libro d’artista Poppies, in copia unica, contiene sei haiku di Andrea Zanzotto in lingua inglese e sei lavori originali di Franco D’Antuono. Fa parte di una collana di sei libri ed è stato realizzato nel maggio 2005, a Roma, per le edizioni arte in orolontano.
All’interno del libro si trovano sei carte letteralmente scolpite dallo scultore, il quale lavorando con un utensile produce un rilievo sulla carta realizzata a mano o, meglio,  centinaia di piccoli precisissimi tratteggi per foglio. Il primo presenta una griglia di linee verticali incise e di tratteggi orizzontali sia incisi sia in rilievo. Il secondo presenta una commistione di tratti, poiché alcuni rilievi si protraggono sulla riga sottostante, creando un andamento curvo. Sul terzo foglio, dalle linee spuntano piccoli aculei che si dispongono sulle linee verticali secondo una sequenza che va da uno a cinque, creando una struttura ordinata e casuale al tempo stesso. Il quarto foglio presenta una struttura analoga al secondo, ma non ha un andamento curvo lungo la verticale, bensì espone un ordine alternato dei tratteggi, il quale richiede di essere analizzato nelle sue variazioni, ricordando analogicamente i valori ritmici musicali, ma in versione tutta visiva. Sul quinto foglio si susseguono tratteggi incisi di diversa misura che corrono soltanto sulla dimensione orizzontale. Il sesto foglio presenta un omogeneo assemblaggio di piccoli rilievi verticali, tutti uguali, i quali formano delle righe ordinatissime.

È segno, seppur derealizzato; bianco su bianco, non ha la sostanza dell’inchiostro, né dei pigmenti, ma quella del vuoto o del rilievo. Un segno siffatto vive di luce. Di tutta la luce usufruibile, quella del foglio bianco. La tacca, prodotta dall’escavazione della carta con un taglierino, acquista una dimensione invasiva, perché riempie metodicamente tutta la pagina. Si potrebbe dire che sviluppi una funzione matematica, che abbia come compito il riempimento di tutto il foglio: sorta di tassellazione della superficie ottenuta, però, con un segmento.
Un segno che si vuole manchevole, colonizza l’intero piano cartaceo, condizionando la percezione dell’intero spazio disponibile. La trama sembra costituita di luce percepita, come prodotta dalla vibrazione del candore della polpa vegetale. I segni pare che si muovano scorrendo uno dietro l’altro o ammassandosi a seconda del fiotto di luce che colpisce il substrato della cellulosa. La trama è una vera e propria partitura che ricorda anche la scrittura Braille. La fitta scalfittura porta alla mente anche la scrittura cuneiforme, con i suoi astratti grafemi. L’atto scultoreo alla base della scrittura, quando essa veniva appunto scalpellata in lastre di pietra, è un elemento basilare nelle presenti tavole. Ciò sembra realizzare l’unione tra parola e immagine, le quali si fondono in un’unità diremmo arcaica, precedente agli sviluppi storici che le ha viste definitivamente separarsi.

Il segno di Franco D’Antuono stampiglia la superficie senza mai commettere una devianza, senza mai interrompere l’omogeneità del bianco, poiché lo scavo è condotto avendo a disposizione meno di un millimetro. L’ombra non ha modo di presentificarsi in queste reti segniche ottenute per sottrazione e, ciò nonostante, è l’ombra ciò che si cerca, roteando la carta sotto una fonte di luce. Si desidera, infatti, roteare il foglio, per sottoporlo alla sorgente di luce, al fine di vederla scorrere su tale  scrittura lineare e scorgerne il motivo strutturale. Le mobili trame e le vibranti stesure di segni, le scanalature che spesso percorrono anche in senso ortogonale l’interezza del foglio, fanno pensare a una matrice che, se immersa nell’acido, può restituire la sua versione in negativo. In ogni caso, reticoli ortogonali saggiano tutte le possibilità, in una variazione apparentemente esaustiva.

La luce non sembra contrastata da alcunché, nulla che la imbrigli o che la attutisca o la faccia deviare; vi è solo una sorta di griglia da cui copiosa può sgorgare a ogni moto impresso al foglio. Processi di variazione e di accrescimento sono alla base della trasformazione strutturale, della sua messa in moto. Il segno inciso cattura la luce, la trattiene, per versarla nelle molteplici righe della partitura, per farla scorrere come acqua su una superficie graduata e farla rifrangere. Luce, zampillando dai rilievi procurati sulla carta, dissolve la materia stessa, divenendo con i suoi trapassi luminosi l’unica materia. Se la struttura geometrica del segno nega la sua possibilità espressiva,  la riduzione al solo modo di eseguirli acquista un valore preponderante. Un miracolo esecutivo, che diviene miracolo mnemonico, mettendo in nuce miriadi di analogiche scalfitture, incisioni e scritture.

A questa delicatissima sorprendente trama, si affiancano i sei haiku di Andrea Zanzotto Poppies. Sono dedicati al più umile, fragile e tenace dei fiori, il papavero, il quale è per Zanzotto, alle prese con diverse patologie, il simbolo della risurrezione di una rinnovata capacità poetica: “Non so neanch’io come, a un certo momento, nell’84, nel corso di una crisi depressiva ho detto: adesso voglio provare ad abbandonare tutti i sentieri. L’haiku andava bene perché è fatto di tre versi, o quattro anche. È come un venire a galla di strati molto antichi. E poi, siccome l’haiku è sempre legato al paesaggio e al tempo, mi rapportavo ai miei antichi vizi paesistici, infatti sono venuti quasi tutti legati al paesaggio”. Il poeta stesso spiega: “Li componevo in un inglese ridotto quasi al grado zero, minimo e minimalista, perché quella lingua la conoscevo poco ma mi piaceva esplorarla”.
Il periodo in cui Zanzotto ha scritto Haiku viene considerata come “una cerniera”: è una ricerca che gli consente di affrontare la brevità, la freschezza, la sottigliezza del pensiero,  in cui trovano accenti particolari gli elementi di paesaggio”, le condizioni climatiche e le fioriture delle piante selvatiche: quei papaveri “che infiorano i fossi come raggi di sole su un piatto di stagno”.


                                                                                     Rosa Pierno