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mercoledì 17 luglio 2019

Rosella Restante



“Quando il gioco si fa metafora”, 2016


Il poliedrico e rigoroso lavoro di Rosella Restante poggia su un disegno che trova nell’assemblaggio simbolico il collante del senso. A partire dai suoi ritratti a grafite degli esordi, risalenti agli anni ’70, l’artista si pone a una distanza ravvicinatissima all’oggetto, ponendo, sullo stesso piano semantico, dettagli dell’abito e dal volto. Nella serie degli occhi (cm. 1,60 x 0,45), tale distanza è talmente ridotta che sembra provocare il loro ingrandimento automatico, anche se ci rendiamo conto che distanza e grandezza non hanno alcuna relazione logica. Restante vi dichiara, inoltre, l’impossibilità di accedere a quel fondo dell’anima, di cui essi sarebbero solo un falso veicolo, una falsa analogia. L’impossibilità pare annidarsi nell’azione rappresentativa di Rosella Restante, poiché anche l’ingrandimento della scala attesta di una insondabilità, dell’inutilità di procedere nell’analisi: quel che vi è da sapere riposa sul piano della visibilità stessa e non è possibile giungere a nessun tipo di approfondimento, né passare a un piano spirituale. Dunque, alcuna profondità è da raggiungere. Il visibile è un’estensione che aggancia sullo stesso foglio altre realtà, sostanze affini. I sensi sono equivalenti, mai gerarchici e causano un affiancarsi dei concetti derivanti dalle sensazioni, ma senza che si giunga mai a fonderli.

Negli anni successivi, in relazione ad altre opere a fusaggine su carta, (nell’installazione “Clinamina”, due disegni di m. 2,20 x 2,20 e foto 0,50 x 0,50) l’intento dell’artista è quello di creare partizioni sulla superficie, anche con sfumature che spazializzino le due dimensioni del foglio, travalicandole. Una sorta di ondoso increspamento si diparte da una porzione del foglio, amplificandosi sull’altra. Oppure, è quello di far quasi trasudare la luce come da fessure operate in uno spazio materico, denso e avvolgente. È il caso dell’installazione, formata da due disegni (il primo di m. 2,80 x 2,80 e il secondo di m. 2,80 x 8,20) a fusaggine: “Quel che resta del vuoto” presentata nel 2006. Essa è composta da un telo sul quale, con segno libero, sono tracciate sciabolate di tratteggi che provengono da tutte le direzioni, sovrastate da una sorta di raggio-albero che saetta nello spazio candido della tela. Lo spazio è pertanto reso manifesto dal segno, artificio bidimensionale, che svela la terza dimensione in maniera, appunto, del tutto illusoria. Lo spazio è, nella rappresentazione, semplicemente ciò che è indicato da un segno. Anche il raggio/albero è nero, con al suo interno lampi, intermittenze e palesa rami come analogicamente si può presupporre quando uno stesso segno può assumere indistintamente due significati. Ciò sta a sottolineare, di conseguenza, come, nell’ambito della rappresentazione, l’ambiguità sia funzionale all’apertura di senso. Nulla si deve chiudere asfitticamente in una definizione, in una gerarchia, in una attribuzione abitudinaria. L’arte visiva di Rosella Restante rifugge dallo stipare in una lettura precostituita i concetti che afferiscono, tramite le sue opere, nella mente del fruitore. Ecco perché non si parla di arte concettuale, per Restante, quanto di uno scardinamento del consueto. Lo sguardo dell’artista è quello limpido della semplicità e dell’evidenza ottenuta tramite distillazione di ipotesi e di verifiche. Ma ritorniamo all’installazione “Quel che resta del vuoto”, dove la prima immagine trova un ulteriore stadio di verifica nel secondo disegno, sempre a fusaggine, dove, questa volta, la superficie è interamente campita in nero, meno tre fessure di forma rettangolare che risentono delle ombre che il nero dintorno esala. Come dire che all’informale è contrapposta l’astrazione geometrica: ancora una volta, un’indicazione che volge verso la scelta non dogmatica dei modelli espressivi, privilegiando la loro commistione, per quanto da essi può provenire ed essere utile per la ricerca. Un terzo elemento, disposto fra le due tele ad angolo, s’incunea nello spazio della rappresentazione: tre strutture metalliche, di differenti altezza, fungono da cerniera fra le due tele, ma anche da misura. Gli sgabelli si trovano ciascuno alla medesima altezza di una delle tre fessure, le quali ricordano il passaggio delle particelle quantistiche che sono determinate solo dallo sguardo del fruitore. Lo spettatore è, forse, il punto focale di tutta l’installazione e la sua visione è pertanto il punto nevralgico dell’essere al mondo. Che cosa si vede quando si vede qualcosa?
“Quel che resta del vuoto”, quindi, non è esclusivamente un riferimento al concetto orientale di vuoto che il tutto contiene, che sicuramente non è da rifuggire, ma soprattutto, è un’analisi sulle modalità del vedere che richiamano alla mente gli studi düreriani sul passaggio dalla visione alla rappresentazione con le scatole prospettiche, rappresentate dai tre sgabelli/tralicci.

La paradossalità della visione passa anche per la parola, nell’installazione “Visitando la parola” del 2011: tre carte avvolgono con la loro morbida curva, ancorate a parete per un solo tratto, lo spazio: sculture a pieno titolo (m. 1,80 x 0,80). Su di esse campeggia l’alfabeto Braille che rimanda questa volta alla cecità e ai conseguenti valori tattili. Tramite esso è stata trascritta la poesia “Parole” di Emilio Villa. La parola, per i vedenti, è presente solo per associazione mentale. Vediamo le parole senza comprenderle. Dove stiamo reclutando quel senso apertissimo, aleatorio?
Intanto, un’asta nera a zigzag percorre lo spazio trasversalmente alle carte e indica una direzione, è misurabile in contrapposizione a ciò che è impreciso o non conosciuto. Tuttavia, indica anche costruzione, misura dello spazio, possibile appropriazione attraverso un espediente espositivo che in qualche modo lo concretizza, che ci rende visibile qualcosa che altrimenti riposerebbe nell’indistinzione. Il dialogo tra opposti riverbera gli specifici significati ed evita che si operi una sintesi. Un video, che integra l’installazione, mostra lo scorrere di un segno che è la registrazione visiva dell’onda sonora di un parlante, il quale somiglia alla rappresentazione di un movimento tellurico. Sono tutte realtà non conciliabili, separate, e tali restano durante la fruizione dell’opera. Si direbbe, che tutto il progetto site-specific intenda addentrarsi nel meccanismo della percezione e nei processi mentali che ne derivano, evidenziandone la ricchezza, m anche la complessità irriducibile.

Il dialogo fra scultura e pittura sembra, pertanto, tenere aperte le estreme divaricazioni di un pensiero che non accetta di subire tagli o cesure, ma nemmeno indebite omologazioni. Inoltre, in un mondo così divaricato, le difficoltà esistenziali si moltiplicano. Lo si intende anche nell’installazione “Quando il gioco si fa metafora” (due foto m. 0,45 x 1,50) del 2016, in cui Restante affronta il tema della somiglianza e della differenza. Nel senso che soltanto tramite la prossimità di alcuni opposti concetti, come, ad esempio, il caso, simbolicamente rappresentato da aste di ferro che si accatastano fra il pavimento e la parete, e che riportano alla mente il gioco dello Shangai, e la volizione, rappresentata dal cielo, la Restante individui la presenza di un sentimento di alienazione umana. Fra gli estremi, l’artista, dichiara di non essere mai nell’ambiente adeguato alla piena felicità. Le due immagini a parete, che fra l’altro innescano un gioco di simmetria, stanno per l’idealità, in contrasto con il ferroso ammasso materico delle aste da districare. Fra le due icone speculari, una testa in ceramica offre al fruitore la chioma, mentre si immagina il suo sguardo rivolto verso una meta non lontana. È forse l’Angelo Benjaminiano che volge le spalle alla storia.

Ancora, volgono le spalle alla storia, le persone fotografate nell’installazione RES 2018 (video in B/N, foto cm. 50 x 50). Lo spazio, antistante la collezione di fotografie a parete, è segnato da una linea nera che lo attraversa come un fulmine e che rende difficoltosa la percorrenza. Le persone fotografate di spalle rivolgono lo sguardo a un oltre, verso il quale viene indirizzato anche il fruitore, creando un efficacissimo meccanismo, il quale ostacola sia il movimento sia lo sguardo dello spettatore. Tale costruzione trattiene, pertanto, visibile e invisibile, esperibile e inesperibile. Il video, che completa il progetto site-specific, regista alcuni eventi che accadono senza lasciare traccia: una pillola che ruota, onde marine che giungono sulla riva e si ritraggono, il suono di una risonanza magnetica. Cose che devono trovare una collocazione emotiva nel tessuto esistenziale, ma che sembrano scorrere come eventi insignificanti, se l’attenzione è appunto attratta verso un altro luogo. Il tempo non pare mai convocato nelle installazioni di Restante, se non esclusivamente come tempo necessario a percorrere lo spazio dell’installazione. Non c’è relazione tra il vissuto, il sognato, l’ideato in un mondo di cui si avvertono solo gli echi.

La capacità di istituire frizioni tra i diversi media e mezzi espressivi rende la ricerca di Rosella Restante particolarmente interessante e profonda per la sua vocazione alla discontinuità, per il suo negarsi all’amalgama e alle fusioni. Le voci differenti giungono tutte alla possibilità percettiva dello spettatore e si frangono come all’interno di un ambiente chiuso del quale si cerca, tuttavia, una via d’uscita. Nulla di tranquillizzante, come non lo sono le percezioni che non riusciamo a incasellare. La loro vitalità costituisce però la vitalità di un’arte che non ha perso la sua capacità costruttiva: mezzo di conoscenza con cui auscultare il reale attraverso l’ideale, solo per meglio comprendere i salti e l’illogicità di una simile pretesa umana.

                                                                Rosa Pierno


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