Sebbene intento di Bruno Di Pietro sia quello di attuare un confronto tra Impero Romano e società contemporanea al fine di trarne alcune considerazioni che dovrebbero aiutarci nella costruzione di quell’Europa per il tramite di una costituzione europea che la renda un soggetto unico, pure sono altre le cose che ci preme mettere in luce. A maggior ragione, considerando che la silloge - pur tessuta con l’intervento di diverse personae, imperatori, cittadini, militari, in cui ciascun individuo è visto sul fondale contraddittorio e contraddicente degli eventi storici - evidenzia anche altre piani, i quali concorrono a inficiare, o perlomeno a complicare, il dichiarato assunto autoriale.
Proprio sul potere si apre il baratro a mala pena paludato nelle pagine di “Impero” di Bruno Di Pietro: esso è una fiera dalle cento teste, rispetto al quale le forme istituzionali non sono che strumenti di gestione ineludibili, necessari e tuttavia non sufficienti. Il potere è qualcosa che si costruisce anche col linguaggio e il poeta appunta la sua ricerca sulle formule linguistiche con le quali esso si descrive. Seguiamo il sogno dell’impero di Augusto oltre il quale “non vi saranno che flutti e scogli”, desiderio illimitato che si sostanzia con le metafore del limitato a cui si contrappone. Tanto più il potere si vuole grande e senza confronti e tanto più deve fare i conti con innumerevoli risorse contingentate, quali quelle del governo di una città alle prese con i suoi concreti problemi: dalla mancanza d’igiene alla disorganizzazione, dal sistema sanitario agli interessi personali. Tutto sembra marciare nell’apposta direzione dell’ideale, dove appunto veleggiano i principi dell’ordine statale.
Con una profusione di versi liberi, di endecasillabi, e settenari e ottonari affiancati a due a due, Di Pietro costruisce le sue arringhe, discorsi, memorie espressi da personaggi coinvolti a vario titolo nel progetto dell’Impero. E ancora a versi di misura tradizionale affida il commento ironico, il quale scorre via veloce poiché vi si s’incastonano rime facili, vero e proprio segnale della presenza autoriale, la quale denuncia comunque la vacuità dell’avvicinamento tra astrazione e realtà. Spesso le poesie terminano con una voce fuori scena, coro a tutti gli effetti, in cui il passato viene letto alla luce degli eventi futuri. Tuttavia, anche qui rileviamo che la funzione del coro, viene svuotata dall’interno per il fatto che i personaggi storici mostrano di essere già consapevoli della situazione e delle conseguenze dei loro atti, eppure hanno continuato ad agire come volevano, come potevano. Vedere in anticipo la sciagura non aiuta a evitarla. Ecco l’amara verità che Di Pietro non lesina di consegnarci e, per questo, la vena malinconica a volte emerge, assieme a quella, ma non assume mai il valore di un’assunzione pessimistica: nel computo della storia il negativo trova una sponda proprio grazie alla spinta propulsiva offerta dall’ideale.
L’estraneità e la non appartenenza campeggiano sulle pagine di “Impero”, poiché il pensiero lo pretende. A maggior ragione il pensiero sulla storia, sulle possibilità effettive di poter incidere pur avendo consapevolezza dello scacco costante: dialogo tra entità inconciliabili (potere, individuo, società) da cui però trarre piccoli avanzamenti. Anche il dialogo tra individuo e massa sembra condividere il medesimo assetto inconciliabile. È l’idea stessa dell’impero a far salire sul palco, il “niente”. È come se proprio ciò che dovesse durare in eterno risvegliasse l’indefinitezza e, in fondo, l’insensatezza dello scorrere del tempo. Ogni legge o persona, imperatore o Impero, può essere letto, compreso solo sullo sfondo della quotidianità. Esclusivamente l’assolutizzazione può rendere pericolosi i concetti e falsi. D’altronde, lo stesso intrecciarsi delle diverse voci e dei registri poetici crea un tessuto rado ove quella che traspare è proprio l’inconsistenza del potere, se mai il potere si dichiari potente ed efficace al di sopra di qualsiasi cosa: un singolo, pure accade, può opporvisi.
Un assedio, quello condotto da Bruno Di Pietro, non privo di note giocose legate al racconto popolare, che se mette alla berlina il potere non lo fa da una posizione moralistica, ma dall’interno, scarnificandone lo scheletro, mostrando che il re è nudo, e lo dichiara su uno sgangherato palco nella piazza del mercato con un ritmo in finale da chiusa favolistica.
Caligola, Nerone, Augusto, i quali hanno avuto nelle loro mani pieno potere, non hanno ottenuto quanto volevano nella lettura del poeta. C’è sempre uno scarto, un resto irriducibile, una solitudine costante, e forse, a tratti almeno, risultano più soddisfacenti le esistenze di personaggi più comuni.
Il potere non è che una collisione tra istanze diverse e spesso opposte, a cui persino i potenti debbono piegarsi. Affermazione poco consolatoria, invero, ma Bruno Di Pietro riesce a fornirci una restituzione che non abbandona mai la complessità in favore di letture lineari, né di quelle che invitano all’accettazione dello status quo.
Rosa Pierno
II. Il sogno di Augusto
Tante quante sono le lucciole al loro tempo
sorgeranno città magnifiche sulla terra e sulla costa
piene di fontane, templi, manifatture e ginnasi.
Le strade progettate condurranno ricchezze
la posta viaggerà alla stessa velocità degli scambi.
I mari solcati da navi cariche di mercanzie
stoffe di Babilonia, spezie di oriente, grano d’Egitto.
Nelle province finiranno i contrasti tribali
le perenni liti parentali.
Le campagne sicure saranno deliziosi giardini:
e il fumo avrà il profumo del pane cotto sulla legna.
Tutto il mondo sembrerà uno solo principio e fine
così tutto sarà ordinatamente al suo posto.
Conquisteremo tutto o saremo perduti.
Deperite le istituzioni di una Repubblica morente
Roma governerà l’intero continente
Dal Baltico all’Egeo.
Lo chiameranno Impero
questo ordine austero.
Ma oltre di noi non vi saranno che flutti e scogli.
Dove solo le aquile
dove solo le mie aquile
potranno.
XXVIII. Nerva
Fin quando la forza non prevarrà sul diritto
sarà solo il Senato a farsi inquisitore
di un senatore accusato di lesa maestà.
Io Nerva questa vorrei fosse norma perenne
per moderare forza e tirannia
( per quanto oggi la maestà sia mia).
La modestia si accompagna alla autorità del Senato
ora che il principato sembra essere un’idea del passato.
Vespasiano aveva ragione:
quale filiazione, quale adozione, quale legione
l’Impero necessita di una Costituzione.
XLIV. “L’Impero deve diventare adulto”
L’Impero deve diventare adulto:
è un insulto all’intelligenza (e alle casse dello Stato)
la guerra di aggressione e di conquista
di inutili e indifendibili territori.
C’è troppa resistenza fra i senatori
che con la guerra ci fanno affari:
cambierà la tendenza solo una sana immissione
di uomini delle province nel Senato:
questa infantile ideologia del confine
resterà infine un’idea del passato.
Così il Vallo resterà il confine permanente
fra la Britannia e il resto del continente.
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