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lunedì 30 ottobre 2017

Federico Palerma, mostra presso lo Spazio M&M, Genova dal 19 ottobre al 4 novembre 2017





Un pulsante cuore di pigmento rosso che si direbbe più intrappolato dalle vene d’inchiostro che loro motore. È come se da un’analogia fisica, da un referente reale, si passasse a un groviglio arterioroso di nero, all’astratto. I condotti esplodono sotto una forza espressiva che pompa energia vitale. Tuttavia, la metafora pare non risolversi, non fa trascorrere da un referente a un altro, né a un suo luogo figurato, ma innesca un’oscillazione perenne. Inchiostro è davvero flusso vitale, nell’esplosivo raptus che consegna alla carta il suo moto irrefrenabile.

Il rosso traspare, a tratti si mischia, poi ne è sopraffatto: il nero scroscia come acqua che risalga da interiora incandescenti. A tratti il segno più che ricoprire, sovrapporsi con veemenza, scava, tentando d’inabissarsi nuovamente: quello che è venuto alla luce già solo per questo è divenuto diverso, si è come ossidato, non può più ritornare all’intimità precedente. È segno. 

La metamorfosi negativa da energia a segno, da segno a traccia scavata, denuncia un passaggio irreversibile della materia mentale. Assimilando anche l’emotività al mentale, si ottiene la logica come alter ego dell’immagine: estranea, ma non espulsa, poiché tale vigore espressivo la uncina in un saldo legame.

Il segno arterioso vale anche come reminiscenza arborea. Sarà una foresta di alberi scheletriti, carbonizzati, a scandire lo spazio dell’opera, a creare i piani attraverso cui si snoda la continuità spaziale. Certi scrosci di bianco si sovrappongono per creare ulteriori piani, quinte più prossime a coloro che guardano, allontanando al contempo l’ultimo piano che interseca l’orizzonte.

Inoltre, le linee spezzate, rendono il ritmo distinguibile. Composto da alternanze di angoli acuti in rapida successione, con repentina variazione di direzione, tale tracciato va a campire lo spazio esistenziale. È certo una dichiarazione sulla percezione del profondo: distanza, tensione, ostilità, minaccia sono i  frutti che si raccolgono su tali rami.

Ecco che però tale esistenziale spazio è di fatto spazio costruito, presenta una struttura per cui avevamo prima parlato di una logica tenuta sempre al laccio. La linea spezzata sembra in tal modo risuonare proprio su tale scontro; le appuntite armi e taglienti ci inducono a credere che mai sia conciliabile la disputa.

Il tempo appare schiavizzato da tutte queste forze che lo costringono, che con varie pressioni e relativi rilassamenti, lo rendono non più uniforme. La dimensione cronologica presenta lacune e trame a tratti inconsistenti, diversamente dallo spazio che offre una salda presa all’esercizio della forza soggettiva. Sebbene la musica sia quasi una sorta di ambiente privilegiato, la fune che sostiene l’artista genovese nelle sue evoluzioni, non è il suo ritmo che ci pare costituire l’elemento principale, ma, appunto, lo spazio.

Quando non è il gesto a dominare, la struttura si fa più evidente, si placa il flusso espressivo, i piani e i volumi vengono costruiti con colori primari, quasi un alfabeto elementare.  E lo si può maggiormente notare nei grandi olii che presentano bande di nero, le quali percorrono lo spazio in direzione univoca, quasi a saggiare la profondità celata nel piano.

Che sia il soggetto l’oggetto referenziale di tali opere è a noi del tutto evidente, ma è un soggetto che disegna per uscire dallo stato di afasia in cui il mondo altrimenti lo chiuderebbe. Solo planando o sgorgando sulla carta, il segno ritrova la concatenazione con la logica e dunque una possibile efficacia progettuale: ogni esistenza umana è nulla senza un progetto espressivo. Dagli scrosci di segni, dagli ingorghi dei suoi affastellamenti, l’energia positiva si distacca dall’opera e c’ingloba, ricostruendo quella catena di relazioni che per Federico Palerma è irrinunciabile, così come per noi ammirare le sue opere.

                                                                                              Rosa Pierno



Federico Palerma insegna Pittura all’Accademia Ligustica di Belle Arti. Ha partecipato a numerose esposizioni collettive e personali, in Italia e all’estero. Vive e lavora a Genova.


Spazio M&M
Via Perosi 13 canc.
Genova 
dal martedì al sabato




giovedì 19 ottobre 2017

"Note sciolte dopo l'ascolto della voce poetica di Ida Travi" di Stefano Iori


Datemi retta, quel che vi dico
non potete capirlo di schiena
devo parlarvi nel petto, e allora
nel petto fiorirà la rosa

(Frammento poetico da  Dora Pal, la terra di Ida Travi, Moretti&Vitali, 2016)

È questo un verso di una delle ultime poesie di Ida Travi.

Parlare nel petto. Cosa può significare?
Nel petto pulsa il cuore e fluisce il respiro.

Prendiamo in esame quest'ultimo.

Pneuma / Fiato / Soffio / Voce / Vento / Ruah.... 

In ebraico ruah significa vento o respiro, ma in senso più esteso indica un qualcosa che si muove e che a sua volta ha la forza di mettere in movimento. 
Pensiamo al turbine del maestrale che solleva e modula le onde del mare.
Pensiamo al suono e alla conseguente risonanza, all'eco....

Ruah ha anche significati più profondi. Non sta a indicare un mero processo biologico (o fisico). Se la parola è applicata a donne o uomini, esprime la profonda dinamica del comportamento umano, ovvero l'energia e la vitalità interiore di ciascun essere parlante su questa Terra. L'energia e la vitalità più intime che si muovono in noi e muovono altro.
Il ritmo della ruah varia continuamente, cambia di volta in volta, velocizza i processi empatici.  è irripetibile (con il fascino estremo di tale aggettivo), proprio come assolutamente irripetibile è ciascun essere vivente.

Il respiro è  fatto personale ma, splendidamente, non ne siamo padroni.

Possiamo trattenerlo, forzarlo, modularlo, il respiro, ma per la massima parte della vita nemmeno ci accorgiamo di assorbire ed espellere aria dalla bocca o dal naso.
Il respiro, ruah, c'è (autonomo, originario), e fin che c'è, segna il vivere. Il pensare, il sognare, il dire e l'agire di ciascuno.

Parlare nel petto. 
Torniamo al quesito iniziale.
Alla luce di quanto premesso, cercherò di interpretare il devo parlarvi nel petto di Ida Travi.

Per capire e carpire ciò che viene detto bisogna porsi di petto e respirare la voce di chi parla. 
Senza padroneggiare ciò che si riceve, lasciando al nostro vento che ascolta il suo automatismo pieno. 

Come nel brindisi, secondo l'uso polacco, bisogna guardarsi negli occhi, così nell'ascolto bisogna porsi frontalmente per assorbire ciò che la parola d'altri propone, Accogliere, abbracciare. Con consapevolezza e  incoscienza assieme.
Mettendoci tutti noi nella dimensione dell'ascolto frontale, diretto, senza barriere e senza pregiudizio, potremo davvero farci parlare nel petto da un poeta accogliendo la sua parola, il suo vento (ruah) come manifestazione completa del suo corpo e del suo spirito che agiscono in noi.

Nasce così la sinfonia duale della voce. 
L'armonia della poesia si fonda sulla dualità. Due voci, ovvero due venti: quello che fluisce vibrando dal poeta e quello dell'ascoltatore, nel suo re-agire in sintonia, nel risuonare in controtempo, mettendo in gioco nervi, sinapsi nascenti, emozione inconsce, fascinazioni da assorbire... in un fiato. Il fiato creatore di chi riceve. Quello che riannodandosi con l'alito del poeta, finisce per originare una creature perfetta: la poesia. Nell'atto sincrono del respirare e dell'inspirare.

È opportuno, a compimento di questo primo atto riflessivo scaturito dalla poesia di Ida Travi, sottolineare un “secondo senso” del frammento poetico posto in apertura. Arriviamo al dunque suddividendo in una dimensione ancora più ridotta il già breve  ritaglio:

Datemi retta, quel che vi dico
non potete capirlo di schiena

… Non voltate la spalle al mio dire... sembra dire la poetessa. Accoglimi, non rifiutare. Abbraccia l'invenzione che ancora non conosci, senza paure, sii curioso. Messaggio importante!

PRIMA DIVAGAZIONE

Non ascoltiamo solo con il senso dell'udito o con la mente. Ascoltare è un atto spirituale.
Così la nostra onda prende nuova vita. 

Ciò permette di ipotizzare una trasformazione. 

Ciò che viene ascoltato torna in gioco nel mondo, dopo l'attraversamento del sé ricevente (ascoltante), come atto spirituale irripetibile. Spontaneo. Penso al testo critico sulla poesia ascoltata, allo studio approfondito sul verso o semplicemente alla discussione tematica, magari quella nata nell'ambito di un  dibattito diretto col poeta, fino alla minimale citazione verbale nell'ambito di una conversazione. 

Si può parlare a questo punto del frutto di molteplici manipolazioni da parte di umani irripetibili: un miscuglio di milioni e milioni d'atomi di pensiero diversi (non scrivo miliardi poiché, ancora oggi, nel Terzo millennio, la diffusione della poesia, come quella del sapere in altre modulazioni d'interesse, è penosamente carente. Gran parte della popolazione ne è completamente esclusa). 

Un tesoro di nessuno e teoricamente per tutti. Una essenza/sapienza spersonalizzata dai propri molteplici artefici umani: aurorale. Di tale essenza, composita eppure originaria, ciascuno di noi tratterrà una parte, grande o piccola, in virtù della singola fame intellettuale.

Sperare di avvertire e cogliere ogni volta, come arricchimento del nostro spirito, questi segnali è impresa oltre plausibile ardimento. Improbabile coglierli tutti. Poi c'è il fattore legato a tutti i secoli che rimarranno all'umanità. Innescati un bel giorno da un verso poetico i nostri segnali si muovono autonomamente, il loro moto è quello della galassia vorticante dei pensieri, destinati a moltiplicarsi e inanellarsi vertiginosamente, e via, fino alla fine dei tempi
Il fiato di questa galassia è troppo grande per poter entrare nella minuta vescica dei nostri polmoni. 

Comincia il grande, gioco, amato intimamente da ciascuno di noi, tra finito, finibile e infinibile.

La poesia non è forse infinibile, almeno sino all'ipotizzabile, ma misteriosa, fine dei tempi?

ALTRA DIVAGAZIONE

Nel pittogramma sumerico che indica il termine poi divenuto in ebraico ruah, appare un occhio “di vento e di forza” (secondo le più attendibili interpretazioni), spento e alato; sotto, in diretta connessione, due o tre segni orizzontali che suggeriscono l'immagine di onde in movimento.

Una precisazione. L'occhio da cui viene ruah, come scritto sopra, è sì alato (quasi fosse angelo), ma è pure spento. Senza pupilla né iride, solo l'orbita e il bulbo. Spento perché spirato. Quando la voce lascia l'attore del dire (divino o umano che sia), ogni sua frase, parola, morfema, fonema, finisce. Ogni nota muore, spira... come vento. 

Spirare è parola dal doppio significato. Anzi si potrebbe pensare a due parole distinte derivate da altrettanti, differenti verbi latini: “spīrare” (soffiare, respirare, emanare) ed “expirare” (spirare ovvero spegnersi). 

In un istante parole, timbri e suoni, svaniti dalle labbra del poeta, vengono a vivere nell'ascoltatore. Lo fanno fluttuare come foglia al vento. 

La poesia è manifestazione dello spirito nel suo migrare da un essere umano all'altro

Migrazione diretta? 
Questa la tesi poetica di Ida Travi che fa nascere nella nostra mente l'immagine di righe bi-direzionali quali vettori del dire e dell'ascoltare, movimento che si incontra, si divide  e gioca, nel più ampio sviluppo del moto duale, sino alla moltiplicazione libera degli intrecci. Senso che cambia, timbriche che si alleggeriscono o appesantiscono, significati e significanti che si gonfiano e restringono, sospinti dal fiato della speculazione intellettuale, del sogno, della creatività. 

O piuttosto, la migrazione dei pensieri procede con andamento a vortice?
A spirale?


La bellezza della poesia è vertiginosa. 
Si può ipotizzare che si manifesti tramite la circolarità della voce. Voce che ha effetto avvolgente, che scardina il tempo e lo spazio. 
L'ascoltatore si viene a trovare in un vortice. In una galassia (come già sopra scrivevo). 
Pianeti e stelle circolano in un spirale, in una ellisse galattica la cui particolarità è quella di manifestarsi, sostanzialmente o solo apparentemente, come figura a due dimensioni. Larghezza e lunghezza, i due raggi ineguali del vortice stesso.

Nel cuore della galassia è possibile dimenticarsi del tempo. 
Fatti evocati, immagini ricreate, giochi di senso, allusioni, spartiti emozionali, ricordi e premonizioni circolano velocemente. Il vagare di questi molteplici elementi si può facilmente cogliere. Basta girare la testa facendo scorrere lo sguardo e l'ascolto su di un solo, unico piano che si muove circolarmente ed evolve, attorno a noi e con noi (che, poeti o ascoltatori, ci poniamo istintivamente nel fuoco del vortice). Proprio come se assistessimo alla proiezione di un film dove la storia di ieri è lì, a fianco di quella di domani, dove ogni impulso di mescola immediatamente ad altri e altri ancora, sviluppandosi in idee sempre differenti (nuove, originarie) che si allargano a raggiera attorno a noi.

In questo vorticare, se ci si propone un ricordo, ecco che lo (ri)viviamo. Se a noi viene una premonizione ne conosciamo immediatamente il più intimo senso, e persino le conseguenze. Tutto ciò che il poeta dice, in virtù della circolarità della sua voce, tratteggia una dimensione fuori dal tempo e dallo spazio. Una (dis)misura dove il concetto di distanza viene ad annullarsi. Un'area  elicoidale fantasma che favorisce straniamento e concentrazione assieme. Nel soggetto attore della migrazione vorticante dei pensieri (ascoltatore) sgorga il desiderio di articolare e connettere gli stimoli della parola poetica affidandoci alla logica del fulmine, mentre, di fatto, si concretizza solo l'atto di dare la stura (e non è poco) a speculazioni successive, avviandone il percorso. Con attenzione e studio, sviluppati e articolati, attraverso meditazione, condivisione o riformulazione, il frutto dei pensieri originati dall'ascolto di una poesia,  potrà arrivare a segnare la nostra vita. 

Un vento spira. Si muove attorno e dentro l'ascoltatore, questi vibra di rimando, sollecitando a sua volta altro e altri.
Forgiando e permeando la propria galassia, la poesia non si ferma né si riflette in se stessa nonostante la circolarità vorticosa del movimento perenne di questa grande forma astrale, anzi, ogni volta, ogni secondo, ciascuna poesia può presentarsi diversa essa stessa a nuovi ascoltatori. 

La poesia penetra in chi ascolta, tocca la sfera emotiva, altera ed espande la memoria, scardinando il vincolo calendariale che ce la fa immaginare come un ordinato archivio. La verità e l'illusione convivono sul medesimo piano. Fantasia e realtà si lasciano vicendevolmente contaminare.

Forse la migrazione simpatica della voce poetica si sviluppa a spirale.

Simpatia, dal greco συμπάϑεια è parola composta da σύν, con, e πάϑος, che nella retorica classica è termine applicato ai generi letterari per indicare l’insieme di passionalità, concitazione, grandezza proprio della tragedia, elemento contrapposto all’ethos, carattere più tenue, proprio della commedia.

Forse è proprio la forza simpatica che anima la migrazione della voce poetica, che le imprime energia, implementando il circuitare della parola. Quella passionale, concitata (o meglio sintetica), grande, grandissima della tragedia e parimenti della poesia che sa modulare anche in altre timbriche la sua poliedrica forza. Sottile, tagliente, fantasiosa, irrealistica, profonda, smisurata, secca, pungente: una forza centrifuga (impadroneggiabile) che assume la forma delle galassie. E la forma delle galassie muta, pur mantenendo il proprio marchio distintivo. Cambia pure la loro sostanza e l'essenza, perché continuamente, ai margini del grande vortice, ci sono stelle in formazione.

ULTIMA DIVAGAZIONE
O forse si tratta di approfondimento trasversale?

La spirale è forma primordiale che allude alla morfologia visuale (o forma apparente) di gran parte delle galassie: ellittica e discoidale.

Per avvicinarsi alla forma primordiale di una galassia necessitano strumenti adatti. Scrisse Galileo Galilei, “La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non s’impara ad intender la lingua, e conoscere i caratteri, ne’quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi veramente per un oscuro labirinto” (Vedi Il Saggiatore, nel quale con bilancia squisita e giusta si ponderano le cose contenute nella Libra, trattato scritto da Galileo Galilei, a cura dell'Accademia dei Lincei, il libro fu stampato nel maggio del 1623 a Roma).

Il primo strumento utile è ritenuto la successione di Fibonacci, introdotta per la prima volta da Leonardo da Pisa (meglio noto come filius Bonacci, ovvero Fibonacci), Pisa, settembre 1175 circa-1235 circa, come soluzione alla modellizzazione matematica della crescita di una popolazione di conigli in un tot di mesi: una successione ricorsiva lineare e omogenea. Per evitare lungaggini di scrittura, si fa qui necessario rimando al personale approfondimento del lettore sul tema.

Il secondo strumento essenziale è la cosiddetta spirale logaritmica (torna la spirale). Quest’ultima è una figura geometrica ottenuta, come scoprì per la prima volta Cartesio, considerando la traiettoria di un punto che si muove di moto uniformemente accelerato su una semiretta, la quale ruota uniformemente intorno alla sua origine. Anche in questo caso si evita la prolissità di cenni agli ulteriori aspetti del tema.

Padroneggiati tali strumenti ci si può finalmente porre la domanda: “C’è qualcosa che accomuna la mirabile disposizione dei petali di una rosa, l’armoniosa spirale di alcune conchiglie, l’allevamento di conigli e la successione di Fibonacci?”.
La risposta di un autorevole studioso della materia, Mario Livio (La sezione aurea. Storia di un numero e di un mistero che dura da tremila anni, di Mario Livio, BUR Biblioteca Univ. Rizzoli. 2012), è affermativa: “Dietro queste realtà così disparate si nasconde sempre lo stesso numero irrazionale comunemente indicato con la lettera greca φ.. Una proporzione scoperta dai pitagorici e calcolata da Euclide, chiamata da un trattato di Luca Pacioli divina proporzione e in seguito sezione aurea”.

Il numero φ, numero aureo, è definito come il rapporto fra due grandezze disuguali la cui somma è media proporzionale tra la minore e la loro somma. Tale rapporto vale approssimativamente 1,618 ma può essere espresso in maniera esatta con un'apposita formula.

Ora, una spirale logaritmica in cui il rapporto costante tra i raggi consecutivi è pari a φ si dice aurea; il rapporto fra un numero della successione di Fibonacci e il suo precedente è, al limite, (per n che tende a infinito) pari a φ.

“Il rapporto aureo è quindi l’anello di congiunzione tra la natura e la matematica, il punto di incontro tra la suprema armonia del cosmo e il modello che lo rappresenta”, precisa Mario Livio che aggiunge: “La natura ama le spirali logaritmiche: dai girasoli alle conchiglie, dai vortici agli uragani alle immense spirali galattiche, sembra che la natura abbia scelto quest’armoniosa figura come proprio ornamento favorito”. 

Anche la poesia ama le spirali logaritmiche, dunque? (non certo quale ornamento!)

Grazie a Ida Travi per avermi affascinato con il suo pensiero. Grazie per aver stimolato in me tante idee e persino un'ipotesi diversa (il modello della spirale al posto di quello della linea di-retta), ma parallela al senso della sua speculazione poetica.


                                                                                               Stefano Iori




mercoledì 11 ottobre 2017

“Gianfranco Bruno pittore”, a cura di Lia Perissinotti, Erga edizioni, 2017




In occasione della recentissima uscita del volume “Gianfranco Bruno pittore” a cura di Lia Perissinotti, Erga edizioni, 2017, in cui sono presenti i testi di V. Sgarbi, C. Nembrini, R. Savinio e di G. Raboni, affrontiamo una questione molto cara a Gianfranco Bruno: il dolore, l’ingiustizia richiedono che si abbia il coraggio di guardarli. È, infatti, un atto partecipativo quello a cui ci esortano molti dei disegni di Gianfranco Bruno. Porsi un problema sociale, partecipare a un sentimento collettivo, vuol certamente dire viverlo, conoscerlo e l’arte ha assolto spesso la funzione di approfondimento e di discesa negli aspetti più torbidi e crudeli della condizione umana. A questo imperativo etico, l’opera stessa risponde con un segno scritturale, strumento di approfondimento,  in cui la parola non si trova troppo discosta dal visivo. Non diciamo di tale vicinanza perché Gianfranco Bruno si è dedicato principalmente alla critica d’arte, bensì perché quel tratteggio a china sul foglio “Massacro. Studio per una crocifissione”, del 1961, ci attanaglia con una rete di segni, sfilacciata in numerosi punti, ma fittissima in altri, che ci fa riemergere fra i bianchi flutti in compagnia degli altri corpi che affiorano e spariscono senza soluzione di continuità. Segni come corde, come legami emotivi. 

Vogliamo aprire una piccola parentesi sulla vicinanza in Bruno fra attività critica e attività artistica, poiché conoscere tramite le due istanze, quella verbale e quella grafica, comporta una distanza che solo a tratti si può ridurre,  senza però mai arrivare a chiudersi, ecco, perché ci appare ancora più preziosa la testimonianza prismatica di tale impegno. Proprio nel vaglio continuo delle due attività, meglio possiamo comprendere le differenze e i modi, le possibilità espressive e le attitudini mentali che sono operative nei due processi. E qui si vuole rinviare al meraviglioso testo di Gianfranco Bruno “La ricerca dell’identità” edito da Pagine d’arte nel 2001, che anni dopo ha voluto riproporre il testo della fondamentale mostra svoltasi a Palazzo Reale, Milano, nel 1974 per ricordare il tipo di critica tutto rivolto al versante dell’impegno verso gli aspetti più problematici della condizione umana.

Ma ora è al meno noto aspetto di Gianfranco Bruno, in veste di pittore, che desideriamo accostarci, in particolare a quel segno nero che è macigno e tenaglia, a quella possanza del suo ossessivo impeto che non rinuncia alla liberazione dal male. Lo potremmo riconoscere come segno specifico di Bruno: il grattare asfittico sulle pareti, sui volti, sugli abiti. È un segno che riunisce tutti i temi da lui svolti (autoritratti, paesaggi, figure) sotto l’egida di un’individualità accanita e inaderente al reale, quand’esso sia accozzaglia di stereotipi. L’individualità stessa è presa come esempio paradigmatico. La proiezione del sé vira i connotati identificativi, cancella i tratti distintivi, rinvia a una presa utopica. Non che l’arte si possa dire utopica sempre solo perché non imita il reale, ma in Bruno il coefficiente di carica utopica è di gran lunga più elevato rispetto al quella dei suoi contemporanei. 

Il pittore genovese fa cadere anche la distinzione tra il referente e il passato, quest’ultimo inteso come insieme di opere d’arte. E, allo steso modo, accade per il paesaggio e il volto: si può passare dall’uno all’altro attraverso il medesimo tratteggio, dalla montagna alla figura coi i medesimi pigmenti. Ciò che non cambia è la posizione del pittore, che si qualifica come uomo e che come tale osserva sia il reale, sia ciò che è realizzato pittoricamente da altri uomini. Non si può affrontare l’arte di Bruno senza avere ben presente questa sorta di passaggio immediato: che sia l’albero ne “Il giardino di François” (1986) o il nudo ne “Il figlio dell’uomo” (1999), la stesura catturante e inglobante del pastello solleva un’aria vorticante e avvolgente che sostiene e trasporta e si accorda al soggetto, il quale è immerso nell’atmosfera, vale a dire è parte integrante della vita.

Il visibile non presenta cesure e la restituzione pittorica avviene spesso in un’innaturale congiunzione di tonalità: che i volti ardano sullo sfondo di mattoni refrattari o si sfaldino in luci azzurrognole, non è il principio di una perdita d’identità, ma il segno della sua simbiosi con il reale (sia esso natura, o ambiente chiuso). Spesso nel paesaggio è nascosto un volto (“Tramonto a Sorlana” del 1991) o un occhio (“Prime idee per Montagna”, 1984), non certo per un valore scontatamente simbolico, ma in quanto specchio adeguatissimo che sappia catturare solo alcuni caratteri e non altri. D’altra parte il paesaggio è sempre stato cassa di risonanza per le più impalpabili sensazioni o i più angosciosi stati d’animo. Non è, quella di Bruno, una visione pessimista, ma una sensibilità ardente per le note, pur presenti, di degradazione nella bellezza o per la  finitezza che palpita nel lussureggiante. E a volte l’immersione nell’incanto paesistico è tale che ci attraversa trasformandoci. Se siamo della medesima sostanza della natura, lo siamo ancor di più nella rappresentazione pittorica, ove il colore, che in Bruno non si dissalda mai dal segno, rivela un’attenzione esclusiva al piano. La profondità, invece, appartiene al corpo, ove gli arti sfondano i piani e creano lo spazio scenico per la rappresentazione di tragedie interamente umane.

Il colore ha un rilievo preponderante nelle opere di Gianfranco Bruno, poiché la figura non è delimitata dal contorno e poiché non sono i piani a determinare le ombre, ma è un infittirsi del segno-colore a creare lo spessore materico degli elementi rappresentati. I pigmenti dunque si sovrappongono, a volte irati, altre pacati, sempre provenendo da ogni direzione: vere e proprie stille cromatiche, che, col loro moto, trascinano l’empatia dell’osservatore. Il tema, nel colore, trova come un sostrato, un fondamento che dà conto della drammaticità dell’assunto: quella condizione umana sempre in bilico tra cancellazione e affermazione. Tutto si gioca sul riconoscimento culturale delle diversità, sull’accettazione dell’altro, sul rispetto ineludibile, ma la sanguinolenta efflorescenza degli interni, la brunita tornitura delle membra, l’oscurità  e l’indistinzione in cui sono immersi i volti, ci confermano che non c'è progresso nella condizione umana. Ci resta la passione della testimonianza e della denuncia, ove l’arte ha inoltre la capacità di non parlare solo del presente, trascinando con sé tutta la storia umana, dai quei primi graffiti sulle pareti d’una caverna.

                                                                           Rosa Pierno



Gianfranco Bruno (Genova, 1937-2016) è stato Direttore, dal 1969 al 2001, dell’Accademia Ligustica di Belle Arti di Genova, di cui rinnova completamente l’istituzione. Dedicatosi inizialmente, fin dagli ultimi anni del liceo classico, quasi esclusivamente alla pittura, in particolare quella ad olio, si impegna in seguito, sempre più assiduamente, nella critica d’arte che diverrà nel tempo la sua attività “ufficiale”, senza che questo gli impedisca tuttavia di proseguire con continuità il suo percorso artistico nell’intero arco della sua vita. Importante nella sua formazione il soggiorno romano, durante il quale conosce Mafai, Mazzacurati e Fausto Pirandello, frequentazioni che lo introducono nell’ambiente artistico locale e consolidano il suo interesse per la Scuola romana. Successivamente vive a Milano, città con cui rimarrà sempre in contatto. Frequenterà nel tempo in particolare Testori, Tassi, Francese, Chighine, Morlotti, Savinio. Nel 1969, in concomitanza con la sua nomina di direttore dell’Accademia Ligustica, si trasferisce definitivamente a Genova. Dalla metà degli anni Settanta inizia a privilegiare la tecnica del pastello, che diventerà nel tempo il suo mezzo di espressione più consueto. Il suo orientamento artistico si fonda sulla convinzione che esista una continuità tra l’arte antica e quella moderna e in questo senso si può ben comprendere la sua predilezione per l’arte figurativa ed il rifiuto di qualsiasi “originalità” e compromissione in funzione del mercato. Attività artistica e attività critica trovano quindi ambedue motivazione in una scelta di orientamento corrispondente a ben motivate predilezioni personali. Rarissime le apparizioni pubbliche del suo lavoro. Sempre apparso restio ad esporre le sue opere per timore di una negativa interferenza tra la sua attività pubblica di critico e quella più intima e privata di pittore. Prima ed unica personale in Italia, nel 1998, alla Galleria Appiani Arte Trentadue di Milano. Di lui, Vittorio Sgarbi scrisse: “Bruno è interprete lucido come storico e come pittore”.