Massimo Rizza, Il veliero capovolto (con una riflessione critica di Carla De Bellis e un’immagine di Giulia Napoleone), Opera Prima, Anterem Edizioni, Verona 2016
Non c’è forse veliero, nell’immaginario poetico tardomoderno, che non possa dirsi capovolto. E difatti così si presenta in Massimo Rizza. Sagoma a rovescio di un natante corporeo e mentale, ogni cui frammento somiglia a “una parola capovolta/ liberata dall’umore che la copriva”. Veliero-testo: il succedersi di parole e frasi in continua tensione verso una X incognita. Tramontato per sempre il modello odisseico, lungo i bordi invalicabili della signifiance opera un soggetto “mutante nell’immobilità”. Sa che quella incognita, nel suo darsi, custodisce il doppio registro, perfidamente oppositivo, di un viaggio interrotto o irretito nella stasi (“la strada giaceva ferma nel mezzo”), e di un veicolo desiderante. Ed è appunto quest’ultimo, “sgretolando lento sulla cerniera di vento”, a lasciar transitare pulsioni scrittorie sul fecondo mare dell’intransività (“la parola che non nomina le cose” dice De Bellis in postfazione), al riparo da ogni tentazione di resa mimetica.
Perché qui le cose reali, i referenti, sono sommersi ad libitum in una zona grigia dell’essere dove gli elementi si scambiano gli attributi – per rifrazioni e dissolvenze incrociate- e la fantasmatica caravella, di fronte all’inarrestabile disperdersi della luce, è spinta ad agire nell’ordine della catabasi, proiettando le sue vele-lingue a rovescio su oscuri fondali marini (“rasenti gli abissi”), seppur nel vaghissimo presentimento di un riscatto. Che s’indovina là dove qualche parvenza di forma si lascia intuire e le parole-gusci alludono, con cadenze di pathos miniaturizzato, a presenze al di là del tempo (“la schiena dell’orizzonte trattiene l’attesa/ della dolcezza assecondi la forma”).
Un’isola si staglia in lontananza (Thule, estrema utopia di un senso-a-venire?), monade plurivalente la cui carne spettrale ma incredibilmente intrisa di Eros-Thanatos (“macerie del ventre”, “natiche di muschio”) è chiamata a proteggere le precarie certezze della dizione, tra i chiaroscuri del continuo emergere e occultarsi della filigrana testuale. Ne nascerà presto, a ridosso di ossimori e distopie verbali riconducibili alla cupiditas estraniata del naufrago, un “poema amoroso” (v. la sezione Sequenze per una storia d’amore) da intendere come simulacro narrativo concepito sulle derive spaziotemporali di una rotta frantumata.
Frughi la rotta tra le macerie del ventre
ossa scalcinate e nudità morte
tra le gambe del troncamento cicatrizzi la farsa
frusti il cielo prima dell’assalto alle stelle
il sogno in calzamaglia si offre alla notte
del fragore trattieni miniature nell’occhio
Calzamaglia cosmico-erotica, guida velante e rivelatrice a un tempo, misura per una “voliera celeste dorata”, l’indumento testuale si dispiega e slitta “nella trama appena tessuta” come un rimbaudiano bateau ivre (a che punto psichicamente ferito?), declinando per instancabili condensazioni e spostamenti di significanti verbali e/o figurali, il tema – teatrale per vocazione, per lo meno in un orizzonte beckettiano – dell’attesa e dell’assenza. Un binomio che potrebbe rimandare anche ai due volti speculari di tanta poesia novecentesca, a partire (è solo un’ipotesi) dai cortocircuiti e dalle prodigiose impasses di certo ermetismo italiano. Sennonché in Rizza ogni supponibile fonte viene profondamente rielaborata, per dare vita a un codice stilistico inedito, supportato da singolari giochi combinatori morfemici e sintagmatici, parallelamente al riverberarsi di incalcolabili eventi di un pathos indotto per fictio dall’anima attoriale. Fosse anche un lungamente covato esercizio metamorfico, mentre “si sta appesi alla pagine bianca” ma già l’”acqua di luce” sfiora una guancia:
(…) caduta dalla mano si fa goccia silenziosa
scolpita nella pietra, cedendo all’incanto giace
sul foglio a forma di farfalla, si apre purpurea e
attende che il protagonista la lasci sicura, di aver
interpretato la parte in una storia d’amore.
Ecco allora squadernarsi, sotto lo sguardo del corpo-veliero desiderante e “in attesa”, un paesaggio caleidoscopico pervaso di demoni onirici, attratto per ‘scatti rabdomantici’ dall’inconfondibile continuum garantito dal registro narrativo-teatrale, dal suo simulato ma spendibile capitale di durée, entro un dispositivo sintattico ampio e ondoso. Uno scenario, oseremmo dire, di resistenza ai moti del dissolversi, che sembra far da contrappeso alle inevitabili ricadute retoriche della distruzione. Almeno fino a quando scenario e corpo formeranno un tutt’uno, benché capovolto e imbevuto d’assenza, per “l’ultima visione alla fine”.
di quell’ultimo paesaggio lì quello addormentato nel colore
della terra, tra una collana di lanterne e il penero del cielo
di quel paesaggio attorto tra le pieghe del ventre, di quel
paesaggio lì, che si ripete negli occhi di ogni incontro e di
ogni assenza, dove le rughe incipriate portano al cuore
dell’attesa, e passando lo bevi e lo porti dentro, di quello
che basta capovolgere ogni volta perché regali l’ultima visione
alla fine.
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