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martedì 28 giugno 2016

Mario Fresa "Jacopo Pellenegra da Troia: un profilo biografico"


Una gioiosa macchinazione. Il teatro barocco del poema Le Bestemmie di Jacopo Pellenegra


Poeta, filosofo e medico ancora oggi poco conosciuto, Jacopo Filippo Pellenegra appare come una bizzarra e sfortunata figura nel panorama letterario italiano della fine del quindicesimo secolo. Poche e frammentarie le notizie storiche che lo riguardano. Vi è, innanzi tutto, molta incertezza sulla stessa lezione del cognome; i vari documenti che lo citano riportano numerose varianti: Pellenera, Pellinere, De Pellibus Nigris, Pellingerus, Pelleniger, Pellinegra, Pilinegre. Sembra, comunque, che il nome originario della famiglia del poeta fosse De Pellenigris.
Sappiamo che nacque a Troia, in provincia di Bari, intorno al 1477, da una famiglia di origini daunie. Si trasferisce presto a Padova, dove studia filosofia e medicina (il documento di immatricolazione lo qualifica come «pauper»). Dai 23 fino ai 26 anni, poi, insegna filosofia morale presso la stessa Università padovana, così come attesta l’Oratio in exordio philosophæ moralis che il Pellenegra pronuncia nel 1500
Non trascura, in quegli anni, l’attività poetica pura; si ha notizia, infatti, di una canzone amorosa, scritta in onore di una donna la cui morte improvvisa gettò il Pellenegra in una nera disperazione, fino a spingerlo al pensiero del suicidio («Ahi lasso, quante volte io feci prova / De dar morte al mio corpo…»). La Canzone è pubblicata in appendice al volume Sonetti e canzoni del preclarissimo poeta messere Antonio Cornazano placentino (Venezia, 1502). 




   Al 1500 risale la traduzione, puntigliosa nella ricostruzione dell’originale, di Saffo a Faone, IV lettera tratta dalla prima parte delle Heroides di Ovidio. L’anno dopo, ritenendo fondata la falsa notizia della morte di Panfilo Sasso, e avendo curato la pubblicazione di un volume che raccoglieva l’opera poetica del Modenese, fece inserire un suo personale sonetto “funebre”, per onorare la memoria del Sasso; il sonetto si apre lamentando l’invincibilità di «quella che con sua falce il mondo atterra / Contra cui non val forza», e che «ogni cosa a suo modo apre e serra»: è la morte, «inimica de virtude in terra», che «in un momento ha chiuso hogi un thesoro / una excellentia un resonante choro / più precioso mai visto in terra». Segue, quindi, una riflessione accorata sulla vanitas della gloria terrena («o quanta nostra pompa poco dura») e, infine, il poeta dichiara certa la fama imperitura del suo ammirato maestro: «Ma tu Pamphilo mio cal ciel sei irto / revestito de spoglia piu secura / havrai sempre al tuo capo rivolto il mirto».
L’anno successivo, a mo’ di scuse per l’increscioso errore, Pel-lenegra dà alle stampe, in appendice a una raccolta poetica del piacentino Antonio Carnazzano, l’epistola in terzine Ad Pamphilum poetam elegantissimum, nella quale il poeta, forse testimoniando la difficoltà di quel momento storico, traccia anche un bilancio dell’eredità culturale dell’umanesimo italiano. Nel 1524, pubblica un’Operetta volgare dedicata alla regina di Polonia donna Bona Sforzesca di Aragona che contiene anche, in misura minore, alcuni testi poetici del suo giovane figlio Ottavio. L’opera, impreziosita da eleganti xilografie, offriva una traduzione in sonetti e in canzoni di testi liturgici. Nel 1506, il poeta ritorna a Troia e, poco dopo, si trasferisce presso la città di Manfredonia, dove esercita la professione di medico. Perde il suo unico figlio Ottavio, ragazzo di quindici anni; e, poco dopo, muore anche sua moglie, Cassandra Zamarina. Non meno sfortunato è il secondo matrimonio del Pellenegra con Cata de Avantagio, puella sane forma, moribus et virgineo pudore ornatissima: la nuova consorte, infatti, morì di parto insieme al figlio nascituro. Narrando il triste episodio, lo sventurato poeta immaginò che la creatura avesse deciso di non voler nascere («non volui duris nasci ego temporibus»), quasi prevedendo le terribili giornate del 1528, in cui il Regno di Napoli, e in particolare la Puglia, furono  assediati con sanguinaria ferocia da Odet  de Foix di Lautrec. 
   La vita coniugale del Pellenegra non cessa di essere gravata da un’aura di tragica sfortuna: anche la terza moglie dell’umanista, Paolina de Avantrugiis, muore improvvisamente, forse nei primi anni trenta del 1500. 
Al 1548 risale un curioso poema in ottava rima dedicato all’impotenza sessuale, L’Infortunio del Pellenegra da Troia. Nel 1552 esce il libretto di una sua dotta dissertazione dedicata ad Avicenna: le Contradictiones Avicennæ excerptæ per Actium Philippum Pellenigerum Troianum; opera dedicata al filosofo napoletano Simone Porzio, suo amico e maestro. Nel 1553 appare il denso poema burlesco Le Bestemmie contra il suo nemico, sulla cui attribuzione non tutti gli studiosi appaiono concordi. Nello stesso anno, il Pellenegra si spegne.


 Un poema misterioso e bizzarro: Le Bestemmie, o sia Le maleditioni. 

Le Bestemmie, o sia Le maleditioni si presenta come una singolare composizione tanto mobile e articolata, quanto uniforme e compatta nella sua strutturazione. Benché il suo andamento procelloso non risulti lontano da una pronuncia enfatica e parossistica (e, dunque, pericolosamente vicina a una nervosa, franta discontinuità), esso appare solidamente disegnato col sostegno di una chiarezza diagrammatica: infatti, l’unico e ossessivo Leitmotiv dell’intero poema è costituito dalla pervicace, feroce enumerazione di insulti, invettive, epiteti e maledizioni che il poeta-medico indirizza a un suo nemico (un rivale nel campo della poesia?) denominato, in modo misterioso, il Cicogna.1
   Il componimento è attraversato da una pulsazione espressiva davvero forte e inesausta; nonostante la sua apparente estemporaneità e la sua energica immediatezza, il poema è costruito secondo un’impostazione formale volutamente teatrale e ostinatamente manieristica: per il Pellenegra, infatti, la poesia è, prima di tutto, finzione e meraviglia, luogo magico visitato da figure del mondo classico, festa allegorica, inesauribile spettacolo; e va intesa, insomma, come una libera e assoluta figurazione artistica: perciò del tutto distante, o comunque significativamente diversa, dalla realtà quotidiana.
   Scorgiamo, in ciò, un curioso contrasto: le imprecazioni e le recriminazioni che il poeta rivolge al suo mortale inimico sembrano certo vere e sincere, perché nate da un contrasto che presumiamo “concreto” e autentico: ma pure, l’intera impalcatura formale della composizione sembra proiettare la freschezza e la veridicità dei sentimenti del poeta in un gioco sofisticato e innaturale, in una circonvoluzione barocca nella quale la scrittura poetica si presenta come recita immaginosa, come continua fioritura dell’eccesso; essa pare costantemente incline alla posa scenografica, allo stupore caricato, sempre muovendosi in una prospettiva che ci ricorda la fondamentale dimensione misteriosa dello stesso linguaggio poetico, che andrebbe inteso sempre come l’espressione di una altrimenti indicibile alterità rispetto a quello che accade nella realtà comune.
   L’effervescenza febbrile delle Bestemmie si fonda, dunque, sul persistere di un movimento incalzante, non di rado iperbolico e ridondante, immerso in una serie davvero ricca e fantasiosa di immagini brillanti ed estrose, inserite in impressionanti, vivacissime sequenze elencatorie nelle quali il poeta innesta i più famosi echi della grande letteratura mitologica greco-latina. Questa formidabile dinamicità percussiva della scrittura di Pellenegra è il segno di una progettualità interna evidente che sa donare all’intero componimento il pregio di una sicura unitarietà e di una forte compattezza. Ma il tono estremo, esasperato, continuo dell’aspro risentimento così violentemente espresso dall’autore non deve essere inteso, secondo noi, come la proiezione di un sentimento affatto serioso e drammatico; poiché sono altrettanto, e chiaramente avvertibili, intenzioni e cadenze colorate di grottesca ironia, di colta facezia, di burlesca lepidezza. 
Si noti, pure, che dallo stesso punto di vista formale il poema tende a usare un registro retorico alto e solenne che parrebbe riferirsi a un paradigma poetico serio, monumentale e declamatorio; si tratta, però, di una scelta stilistica precisa che vuole esprimere un finissimo, trasversale mascheramento, capace di rendere, se possibile, ancor più arguto e sottile lo screditamento dell’innominato avversario del poeta.

Il metro usato nella composizione prevede l’uso di endecasillabi, inseriti nel classico schema della terza rima (ABABCBC…).

Del poema Le Bestemmie riportiamo, di seguito, i soli primi due capitoli. Nella trascrizione, abbiamo rispettato la grafia e le peculiarità ortografiche del testo originale. 
La copia consultata dell’edizione del poema è quella conservata presso la Österreichische Nationalbibliothek di Vienna (LE BESTEMMIE │DEL PELLENEGRA│ DA TROIA, CONTRA │IL SVO NEMICO. │DIVISE IN SEI │CAPITOLI.││CON PRIVILEGIO │M D L III  [*38.V. 74] ).


1  Escludendo evidenti richiami a un cognome autentico, si dovrà intendere il nome “Cicogna” come un’invenzione allegorica pura, non lontana, forse, da un’indiretta citazione dantesca, là dove si riferisce del suono garrulo, aspro e cupo di quelle «ombre dolenti» che battono i denti «in nota di cicogna» (Inf. XXXII, vv. 35-36); un’ipotesi più credibile, nondimeno, può far pensare che il nome cicogna alluda al gancio aguzzo, molto usato nel secolo sedicesimo, chiamato appunto «cicogna» o «erro» (in questo caso, l’acuminata e tagliente forma dell’oggetto potrebbe essere intesa come simbolo della malevola e penetrante lingua del fiero inimico del poeta).




LE MALEDITTIONI DEL
PELLENEGRA DA TROIA,
contra il ʃuo nemico




CAPITOLO PRIMO


INSIN à queʃta età, che già paʃʃato
È ’l il fior de la mia vita, ancor mai 
A’ ʃcriver mal d'altrui  non mi ʃon dato, 
Leggi i miei verʃi, e volgi pur ʃe ʃai
Lettore i libri, che del Pellenegra
Non pur lettra maligna vi vedrai.
Il mio faceto stil ciaʃcuno allegra,
E ʃe s’offende alcun pur del mio dire,
Vien per ʃua mente invidiosa, et egra.
Hora un mi offende tal, che in in carta dire
Non oʃo il nome ʃuo, il qual non vuole, 
Che in pace i pochi giorni habbia à finire.

1.
Costui (ahi laʃʃo, che forte mi duole
Non poter dirlo) sforza la mia mano
Ad altre arme adoprar di quel che ʃuole,
Non li basta, che io ʃia dal mio Troiano
Paeʃe, confinato in queʃta terra,
Che’l Greco edificò ʃotto il Gargano;
Ma ancor per farmi star mai ʃempre in guerra
Mi rinova ogni piaga, e per diʃpetto,
Come fa il can ʃua bocca mai non ʃerra.
Quella ʃanta conʃorte del mio letto,
Che morte poco avanti tolto m’have,
Non vuol ch'io pianga il falʃo, e maledetto;
Se vedeʃʃe costui rotta mia nave,
Et ch'io ʃopra alcun legno stessi in mare,
Vorria, che andaʃʃe ʃotto acqua ogni trave. 
Chi al foco ardente acqua dovea portare,
Anzi che vada in ciel la fiamma, quello
Di legna il carca, accioche habbia à durare.
Procura, che al bandito, e vecchiarello, 
Il nutrimento manchi, non penʃando,
Che di piu mal del mio, e ben degn’ello.
Ma ʃempre al giusto Dio mi raccommando,
Che mi copra col ʃuo pietoʃo manto,
Perch’io non vada in tutto mendicando.
A’ lui do gratie, come à ʃolo ʃanto,
E mai non ceʃʃero, poi che’l giocondo
Suo voler mi ha rivolto in dolor tanto.
Vdirà quel ch'io ʃcrivo tutto il mondo,
E ʃe del ʃacro Apollo havrò la pace

2.
Sarà il mio pianto inteʃo anco al profondo.
E tu, che ʃi vilmente un’huom che giace
Invida terra calchi col tuo piede
Nemico ti ʃarò ʃempre verace.
L’humido darà prima al ʃecco fede
Di non gli eʃʃer contrario, e l’alma Luna,
Starà ʃempre col ʃole in una ʃede.
Zefiro, et Euro ʃpireran da una
Parte ʃteʃʃa del cielo, et Euro inʃeʃsto
Tepido fia ʃenza tempesta alcuna.
Eteocle e Polinice ancor più presto
In morte fian concordi, benche al rogo
Il fume ʃeparava quel da queʃto.
Primavera, et Autunno ambe ad un giogo
La state aggiunta inʃieme fia col verno,
È’l Sol levare, e ponere in un luogo.
Tutte coʃe imposʃibili ab eterno
Prima ʃaran, ch'io mai teco pace habbia,
Per tua maligna lingua, e mal governo;
Non ʃperar mai, che mia canina rabbia,
Per ʃpatio alcun di tempo manchi, e temo
Non haver’ugne da raʃpar tua ʃcabbia,
Odio ʃarà fra noi mentre vivremo,
Qual è fra il lupo, e l’agnel manʃueto,
E in queʃto ʃol concordi noi ʃaremo.
Coʃi comincerò tacito, e queto 
Col canto, che hora leggi à ʃeguitarte,
Benche à questo il mio stil non ʃia aʃʃueto,
Qual nel Teatro il cavallier di Marte

3.
Vien anzi, che combatta di vil’arme
Vestito, per provar ʃi è atto à l’arte
Tal’io con questo debìl stil provarme
Voglio teco al preʃente, e ʃe biʃogno
Sarà, poi d’altri verʃi poʃʃo aitarme.
Dir chi ʃei, e qual ʃei hor mi vergogno
Aʃʃai ʃia, ch'io t'ho posto un’altro nome,
E parlo teco come foʃʃe in ʃogno.
Ma ʃe mi carcherai di queste ʃome,
Contra te m’armerò di quel rio stile,
Che fè Licambre al vento dar le chiome.
Hor ti darò quel nome immondo, e vile,
Che Callimaco diede al ʃuo nemico,
E qual’eʃʃo  verte ʃarò virile.
A’ ʃuo eʃʃempio ancor io per te m’intrico
Ne le historie rare, bencche ogn’uno
Sa che io di tal materia non ʃo amico.
Mentre ʃeguo le tenebre, et raduno
L'ordimento, e la trama di mia tela,
Che'l Pellenegra io ʃia dirà neʃʃuno.
E perche (come è detto) qui ʃi cela
Chi huomo ʃei, finche ʃarà palese
Il nome di Cicogna ti rivela;
E come ʃono ʃcure, e mal’inteʃe
Queste mie rime, coʃì la tua vita
Sia ʃempre negra per mie gravi offeʃe.
E perche habbia buon fin mia tela ordita
Queʃta mia Oration nel tuo natale
E al primo di Iano ʃia bandita.

4.
Dij marini, e terreni, e ʃe in ciel ʃale
Mia voce, voi ʃuperni ancora invoco, 
Che vostra poteʃtà, più ch’altro vale.
Vi prego che volgiate in queʃto loco
Le vostre ʃante menti, et operiate,
Che’l mio deʃio non ʃia tenuto à gioco.
Voi terra, e mar, che di gran tempestate
Potenti ʃeti, e voi celesti Dei
Prego, che queʃti detti aʃcoltiate.
Stelle, pianeti, e voi raggi Febei, 
E tu Luna, che ʃempre ti renovi,
C’hor tutta, hor meza, hor nova, hor vecchia ʃei.
Notte che ʃempre in tenebre ti trovi
E tu una de le tre, ʃorelle atroce, 
Che’l noʃtro fuʃo à tuo modo ogni’hor movi.
Fiume con murmur ante ʃuono e voce,
Che corri per l’inferna e trista valle
De l’acqua, che al pergiurio ʃacro noce.
Voi, che i ʃerpenti ʃparʃi per le ʃpalle
Portate à guiʃa di biondi capelli,
De l’inferno ʃedendo al primo calle.
O' voi minori Dei, ò Fauni belli
Satiri, Larve, Fonti, Ninfe, e Fiumi,
Semidei generoʃi, e Dei novelli,
Voi altri antiqui con moderni numi,
venite tutti quanti uniti in choro,
E di questa opra mia ʃiate lumi.
Accioche mentre io teʃʃo il mio lavoro,
E mentre io canto i maledetti verʃi

5.
Sfochino ire, e dolor, le voglie loro.
Concordi per mio amore, e non diverʃi
Fra voi ʃiate, accioch’eʃti miei voti
Non ʃian caduchi, vani, ne diʃperʃi;
Facciate che i desij miei ʃian ʃi noti,
Come gia furon quelli di Teʃeo,
che traʃʃe fuor de l’acqua i peʃci ignoti.
Le pene ch'io traduco, in questo reo
Stil’, habbia il mio nemico, e par ch’io mora
Che eʃʃer vorrei à dirli un’altro Orfeo.
E benche il nome ʃuo io non dia fora,
Per questo non voglio io, che tante pene,
Non movano à i gran Dei, che Roma adora.
Maledico colui, chel mio cor tene
Sempre in memoria, il qual cicogna chiamo,
Che tal immondo nome à lui convene.
Non piu, perche qual ʃacerdote io amo
cominciar il mio ufficio, chi è preʃente,
Taccia, e mi aʃcolti, ne altra coʃa bramo.
Tu che ʃei qui non penʃar in tua mente
Altro, che coʃe meste, atre, e ferali,
Huom qui non stia, ʃe non tristo, e dolente.
Vien col piè manco, e con augurij mali,
E d'altro il corpo tuo non ʃia coperto,
Se non di panni negri, e funerali.
cicogna, e tu che aʃpetti? ecco il tuo merto,
Vieni à l’altare, vieni al ʃacrificio,
Ecco, che’l fine di tua vita è certo.
La pompa è tutta in ordine, à l'officio

6.
Mio tristo ogni dimora ʃia lontana,
Tu vittima crudel per degno eʃilio,
Porgi al coltello mio, tua gola inʃana.



CAPITOLO SECONDO

LA terra, i frutti ʃuoi negar ti poʃʃa,
Suo humor ti neghi ogni fontana, e fiume,
Sia per te al vento ogni dolce aura ʃcoʃʃa;
E’l Sol t’aʃconda il ʃuo benigno lume,
La Luna ti ʃia negra, etogni ʃtella,
De gli occhi tuoi il ʃuo ʃplendor conʃume.
Il foco ti ʃia contra, e l’aria bella
Ti ʃia nemica l’acqua, con la terra,
Al gir’, et al venir ti ʃia rubella.
Bandito, errante, e tristo in ogni terra
Vadi il pan mendicando per le porte,
E in ʃcambio di pietà trovi odio, e guerra . 
Sempre il tuo corpo ʃia vicino à morte,
Sia la tua mente ʃempre afflitta, et egra,
Siati dì e notte ogn’hor più grave, e forte.
Miʃera ʃia tua vita, e ʃempre negra,
Nulla perʃona habbja di te pietate,
Ma ʃia d’ogni tuo mal contenta, e allegra.
E ʃe qualche uno pure à le fiate,
Vedendo il tuo continuo languire,
Piangeʃʃe le tue pene ʃcelerate,
Quel tal’in odio t’habbia, e poʃʃa dire,

7.
Che degno ʃei di pena aʃʃai maggiore,
E che tua vita ben non può finire.
E privo di quel ʃolito favore,
Qual ti dà la Fortuna, più neʃʃuno
Di te non habbia invidia, odio ò dolore.
Qual diʃperato pregar possi ogn’uno,
Che ti dia morte, et à le tue preghiere,
Per che piu stenti , non ʃi mova alcuno. 
L’alma tua dopo molto diʃpiacere
Sofferto, lassi il corpo, come ʃtanca
Di tanto lungo tempo pena havere.
Il che farà, ʃe Apollo non mi manca,
Benche m’ha dato ʃegno del futuro,
Col volo del ʃuo augello da man manca.
Che queʃte mie bestemmie, ʃon ʃecuro
Moveran tutti dei celesti, et io
Di te vendetta havrò perfido e duro.
Sarai punito un giorno ingrato e rio,
Et ancor che non vogli stenterai,
E allor ʃarà contento il core mio.
Ma più tosto queʃta anima, che l’hai
Cotanto in odio, mi torrà quel giorno
Ch’io vorrei, che veniʃʃe, e non vien mai.
Che questa mia gran doglia habbia ʃoggiorno
Che mai cessi il dolor di cui ʃon carco,
Che mai tempo mi toglia tanto ʃcorno.
Mentre combatterà col dardo, e l’arco
La Tracia, e’l Gange tepido ʃarà,
E di freddo il Danubio ʃarà ʃcarco.

8.
Mentre il prato herba, il monte quercie havrà,
Mentre ʃon l’onde freʃche, e cristalline
Del Toʃco fiume, che per Roma và.
Sempre combatterò con teco, e fine
Per morte non havrà mia ira, dando
Poi morte al fine tuo maggior ruine.
E quando di mia vita io ʃarò in bando
Piu fier nemico ti ʃarò si morto,
Se poi morte pon gir l’alme vagando.
Io mi ricorderò lo stratio e’l torto,
Che mi havrai fatto, e punirotti allora
Di tutte pene c’hor per te ʃopporto.
Se avien ( che Dio non voglia ) per dimora
Di lungo tempo io dia fine à mia vita,
O per man d’altri eʃca del mondo fora.
O per naufragio ʃia rotta eʃdruʃcita
Mia fragil barca e de’ gran mari e cupi
Eʃca ʃià, à peʃci groʃʃi stabilita,
O’ in profonde valli, ò in alte rupi
Foʃʃe cibo d’augelli la mia carne
O' pasto foʃʃe à inʃatiabil lupi,
O ʃi degnaʃʃe alcun poi morte farne
Vn tumulo di terra, overo al rogo
Voleʃʃe per ʃua gratia collocarne.
Ovunque ʃia mi sforzerò dal giogo,
Che mi terrà, fuggire, e tormentarti.
Se foʃʃe ben dentro il tartareo luogo,
Io ʃpero in ogni banda molestarti,
Ne ceʃʃerò del giorno un'hora; e poi

9.
La notte romperò tuoi ʃogni ad arte:
Volerò ʃempre avanti gli occhi tuoi
Sempre mi vederai, e non penʃare,
Ch'io ʃia per far, ʃe non quel che non vuoi.
Ne le tue ʃpalle ʃentirai ʃonare
Gravi percoʃʃe, e la furial face
Sempre al coʃpetto tuo vedrai fumare.
Le furie, vivo e morto d’ogni pace,
Ti ʃpoglieranno, e la tua vita ʃia
Breve, e ʃopra te fia ciaʃcuno audace.
Et quando ʃarai morto allor non ʃia
Perʃona, che ti pianga, ò faccia eʃʃequie,
Ma ogn'un ti laʃci nudo in ʃu la via;
E accioche’l corpo tuo ivi non requie,
Sia ʃtraʃcinato in terra, e per la chioma
Al vento penda, che non habbia requie.
Il foco ardente, che ogni coʃa doma
Ti fuggirà, e la terra nostra madre,
Al corpo tuo non darà manto, e ʃoma;
Del Voltore il fier rostro, e l’ugne ladre
Ti stratieranno, e d’affamati cani
Ti roderanno il cor tute empie ʃquadre.
E ʃe li voti miei non ʃono vani,
Benché tal laude, e gloria ti ʃia vanto
I,lupi per tuo amor verranno à mani,
Sarai bandito da quel loco ʃanto
De l’anime felici , e la tua ʃede
Sarà quella, ove alberga doglia e pianto.
Lui è Siʃifo, il qual ʃempre da piede 

10.
Del monte porta il ʃaʃʃo, ivi e Issione,
Che le ʃue membra ne la rota vede.
Lui ʃon le nepoti di Belone
Sempre mai d’acqua carche, à cui non ʃpiacque
Dar fratelli e mariti al gran Plutone;
Lui è Tantalo ancora, il qual non tacque
I celeʃti ʃecreti, onde di fame
E ʃete muore havendo poma, et acque.
Ivi è disteʃo Titio, e par che brame
Ancor Latona, onde il figliuolo irato
Volch'al ʃuo corpo il Voltore ʃi sfame;
Coʃì una de le furie, il tuo lato
Sempre col ʃuo flagello empio tormente;
Per farti confeʃʃare ogni peccato.
L’altra con l’infernal ʃua ugna, e dente
Sempre stratij tue membra, e tue maʃcelle
Arda la terza col ferro cocente.
A mille modi le tue poverelle
Carni ʃaran trattate, e Radamante
Si sforzerà dar noia à tutte quelle.
Tu patirai le pene tutte quante
De nostri antiqui, et ogn’un ʃarà quieto,
Perche tua ʃia ogni pena da qui avante.
Siʃifo ti poi dir felice, e lieto
Havendo chi ti toglia il duro peʃo,
E per te altri in le rote starà drieto.
Non a te, ma à coʃtui ʃarà ʃoʃpeʃo
Il ramo, e fiume, coʃtui li tuoi augelli
Paʃcerà di ʃue carni in terra steʃo.

11.
Poi morte i tuoi dolor ʃaran novelli.
Sempre in pene ʃtarai, ʃempre harai foco,
Ogn’hor gli stenti tuoi ʃaran più belli;
De’ mali tuoi io ve dirò ʃi poco
Che ʃarà come in ʃelva toglier fronda,
O’ acqua in mar, il che à dir ʃolo è gioco:
Perche di tanti fiori non abonda
Sicilia, ne produce credo herba
Cotanta la Cilicia feconda;
Ne vien mai con tal furia aʃpra, e ʃuperba
Borea d’inverno con tempeʃta atroce,
Che fa di neve ogni montagna acerba:
Quanti ʃono i tuoi mali, la mia voce
Stanca non basta à dirlo, benche haveʃʃe
Più lingue, e nel parlar fossi veloce.
Miʃero te, quante ruine eʃpreʃʃe,
Adoʃʃo ti veranno, che à me dico
Par che à mirarle ʃol, fastidio deʃʃe.
Piàngerò del tuo mal, benche nemico
Tuo ʃia, ma del tuo pianto havrò tal gioia,
Che più del dolce riʃo mi ʃia amico,
O felice e contento allora il Troia.









martedì 21 giugno 2016

Gianni Montieri "Avremo cura", editrice Zona, 2014




Il racconto delle minime cose, quelle quotidiane al limite dell'insignificanza, non  è mai  stato così prezioso proprio a causa del tono pacato, lieve e dolce  dell'autore: Gianni Montieri nel suo "Avremo cura", editrice Zona, 2014. La macchina percettiva che è in azione, non si saprebbe dire dove sia posizionata, non c'è un esterno pregnante rispetto a uno stato interiore, perché quello colora questo, perché questo assembla quello, in un'osmosi che se stempera i contorni, rafforza la fermezza dell'immagine, mettendo a fuoco il nucleo dell'insensatezza che il poeta denuncia.

Tuttavia, la felicità c'è sempre quando c'è lei, la donna amata,  e si riverbera sulle pareti della chiesa della Salute, sull'acqua "appena alta". La pienezza dell'amore. L'amore che sazia e che allontana non solo la morte, ma rende impossibile la sua stessa fine. Nessuna cosa può fotografarsi senza che lei sia riflessa dallo sguardo del poeta sulle superfici levigate delle cose. E dà una felicita l'amore, quando è sazio, che fa dimenticare anche che il mondo non è amore.

L'amore, pertanto, come condizione di serenità e di relativizzazione dello sciabordio a cui le cose dell'esistenza sono abbandonate, il quale è,  in ogni caso, un moto che non modifica l'ordine delle cose. Ma lo sguardo d'un uomo preso d'amore, nelle profondità intestine delle cose ritrova i luccichii e i riverberi, le superfici trasparenti, i limpidi moti di un'acqua stagna e l'oscuro fondo. Qualcosa consente la completa complanarità tra profondità e superficie ed è la sostanza stessa dell'amore: leggibile e illeggibile nel medesimo torno di tempo.

Questa sensazione di iridiscente malinconia che avvolge le cose, non solo quelle   più lontane,  indica che la difficoltà è sempre quella di mettere a segno l'inutilità della violenza, dell'aggressività, dello sfruttamento. L'esistenza d'un mondo crudele, e inutilmente crudele, ove forse anche il linguaggio ha un suo ruolo, dove la sua ricercata complessione, soprattutto in ambito poetico, si pone più come un inutile approdo che come un utile strumento.


Volevo scrivere una poesia innovativa
che fosse poco comprensibile, strana
per dire pioggia avrei messo un ratto
in un tubo e il tubo in un territorio
alieno, o in una marmitta sfondata
di uno sfasciacarrozze camorrista
e abusivo di Melito. Sulla pioggia
avrei detto nulla in venti versi
Asincronici, asimmetrici, asintomatici
per dire anima di un amico malato
non avrei menzionato ospedale
ma fabbriche abbandonate e nomi
come Gallarate, o automi d'acciaio
fusi nell'inceneritore di Figino.

Per chiusa una cabina telefonica
Sip, due gettoni uno che chiama
chissà dove e uno che non risponde.


"Salvo, già salvato, ancora da salvare" forse sono le sole posizioni mentali che possiamo attivare in un contesto  dove avere un ruolo attivo sembra impossibile: sorta di  diga contro l'oblio totale,  gli unici stati attraverso i quali possiamo definire la nostra condizione nel mondo, a peritura memoria di una peritura felicità. Ma, il poeta è anche testimone del valore salvifico del linguaggio: poiché "la sua mancanza che non racconto / che non dichiaro" è mancanza appuntata ancora con parole, nel narrare il dolore per la morte del nonno, in una poesia presente nella seconda sezione del libro, intitolata: "Sud) In caso di morte".

Abitudine ed evento violento, quiete e fatto nefasto, sono anche in qualche modo "misteri recitativi" poiché al non sense non si può controbattere che con una scenografia e una recita pomeridiana. Le parole sembrano avere anche il potere d'incastonare le persone in un'azione, come una moviola che ripeta all'infinito. Guardare una palla rotolare o un biliardo, azione dell'adolescenza, sarà per sempre sentire lo stesso, anche se ora si è diversi. In codesta clessidra, il tempo ha due sole stazioni, ma nessuna direzione.

Dicevamo che nella seconda sezione, la località geografica ha un nesso fortissimo con la morte, determinando atteggiamenti al limite dell'afasia.

XXVII

Un poco questa cosa me la porto appresso
il precipizio atavico, niente dietro l'angolo
anni, migliaia di metri di distanza concedono
un sereno mai definitivo, la certezza
di uno scampo temporaneo alla morte
una pausa, una presa in giro.


È come far collassare insieme un medesimo luogo in un medesimo tempo: " La sparatoria dietro l'angolo / la partita di calcetto, i compiti da fare, / poi uscire la sera il bar, la storia di tutti, / tutti tornavano per cena". L'assurdo si trova a condividere lo stesso luogo della quotidianità apparentemente più risolta e serena. In realtà, tale vicinanza svela la forza inabbattibile di una vita in cui non fare male all'altro è il principio che la rende salda, ben vissuta anche nella sua pochezza, e che contemporaneamente rende ancora più inutile e idiota l'atto che con violenza la dissacra.

XVII

C'era poi un disegno del morire
sui volti degli uomini seduti
davanti ai bar a guardare
passare, sollevare l'occhio
indicare all'altro e criticare
stando fermi, non cambiando
(che fosse scopa o tressette)
mai la maniera di giocare.

Dunque, una critica, quella di Gianni Montieri,  che non fermandosi al dettato della presenza epicurea, la quale impregna i panni della cultura del Sud Italia, rivolge un appello, richiama una diversa prospettiva, indicante lo strenuo desiderio di una svolta nel fisso proscenio,  e la invoca con la placida posa del giusto.

                                                                                               Rosa Pierno

lunedì 13 giugno 2016

Livia Liverani: un ponte tra sponde congiunte





Il simbolo è costituito da una figura fissa e da un concetto a essa associato, anche se arbitrariamente, il che spiega perché in differenti epoche o contesti culturali la medesima figura possa accogliere diversi significati. Di fronte alle opere di Livia Liverani, comprendiamo che i contesti diversi sono dati dalla tradizione buddhista di origine,  da cui è tratta la collezione di figure, e quella occidentale di arrivo, poiché l'artista è inevitabilmente intrisa di sensibilità e cultura occidentale ed effettua una rilettura/reinterpretazione che sposta l'asse figurativo verso nuovi significati. Nel senso che pure attraverso l'appassionata adesione alla pittura tibetana, il portato individuale è ineliminabile, gli occhi e la cultura sono diversi e necessariamente la forma che ne risulta ha valenze sue proprie di significazione.

Ciò che costituisce un primo discrimine tra l'arte tibetana e l'arte occidentale è che la prima viene trasmessa da maestro a discepolo secondo un rigido protocollo che mantiene  inalterate le fattezze, le proporzioni e i colori,  affinché  non si verifichi nessuna interposizione nella ricezione del messaggio originale, il quale inoltre, deve essere inteso, rivissuto come esperienza diretta, non concettuale, intuito, riconosciuto nel suo farsi, mai variato.  Ora proprio tale conformità sembra essere uno dei cardini che contrappone l'arte tibetana a quella occidentale. Nel seguire le indicazioni, gli schemi e i metodi che vengono a regolare tale prassi, Livia Liverani, infatti, si sgancia da esse esattamente nel punto in cui richiederebbero un'adesione totale al fine d'indurre nell'immagine la presenza di una sensibilità meno instradata.


Fermo restando il carattere della sua generale adesione alla pratica tibetana, e per questa via incanalando i simboli della sua tradizione millenaria: il metodo, la saggezza, la via dell'illuminazione, la vacuità, la compassione, lo scarto introdotto dall'artista lo si coglie nella raffinatezza dell'innesto - di per se stesso simbolo dell'intersecarsi del nuovo nell'orientale pratica - spesso un collage ottenuto con piccoli ritagli di stoffe giapponesi  (raccolte dalla Liverani nella sua instancabile attività di indagine all'interno delle culture asiatiche) utilizzate per  marcare una forma o costituire un motivo nel motivo. I simboli vengono dunque rimessi in un contesto formale rivisto e rivitalizzato, che ha qualche assonanza con certe proliferazioni fiamminghe o giapponesi che nel disegno floreale raggiungono apici di maestria e di raffinatezza estrema: ecco le piccole precisissime piante che lambiscono i piedi delle figure immerse nell'immagine! Incantevoli evoluzioni vegetali e volute geometriche ove la tassellazione non giunge mai ad esaurirsi.

A partire da un simbolo, come accade nell'opera "Ma gcig Lab sgron", ove una Yogini senza paura "danzando sulle divinità e gli spiriti dell'io, riduce in polvere il pensiero discorsivo della trasmigrazione che genera dualismo" si nota, nella squisita fattura della figura umana dipinta su seta, un parterre di fiori di loto avente la leggiadria  delle creazioni dell'art nouveau. Questo non per ricondurre il lavoro di Livia Liverani al già visto, quanto piuttosto per evidenziare che prestiti di provenienza la più disparata coesistono nelle sue opere come per vitrea fusione.  Tal è di fatto il grado della precisione che la Liverani infonde nella stupefacente tecnica appresa durante l'apprendistato col maestro Lama Yeshe Jamyang. Una rarefazione degli elementi, una pulizia che fa respirare l'aria delle cime innevate ed eleva ciascun elemento dell'immagine caricandolo di un'aurea che segnala, anche a  coloro che non sono edotti sulla simbologia buddhista, che si è in presenza di un significato importante, assoluto.

Alcuni lavori presentano forme ritagliate in stoffe - stoffe accuratamente scelte fra quelle aventi una propria individua fisionomia grazie alla particolare tessitura, pesantezza, colore, decoro - le quali consentono all'artista di operare ogni sorta di intarsi, che si fondono nell'emulsione generale dei delicatissimi toni creando armonie tenui e sonanti. Anche le carte dalla superficie operata, e a loro volta incollate o ricamate sulla stoffa che funge da supporto, presentano una nitidezza che smorza le tinte squillanti e la fantasmagorica presenza dei decori fermentanti sulla superficie liquida delle pitture della tradizione, facendo lievitare ciò che ha simbolico valore. I  racemi presentano un accenno, appena una voluta che si replica in un germoglio,  e sono deposti sull'immagine come i coralli di una collana: preziosi reperti che ci parlano del tutto, proprio mentre ci viene presentato un particolare. Spesso interviene il ricamo di perline o l'utilizzo di fili di seta a creare un'ambigua consistenza tra opera su supporto rigido e stola (il ricordo di leggiadri kimono non è certo lontano). Il risultato è la quintessenza del lavoro manuale che resta componente non strumentale, ma reclamante la sua visibilità in quanto processo di meditazione facente parte dell'opera.

In qualche modo è questa la più suadente riattualizzazione - quella, appunto, che Livia Liverani ha saputo creare con profondo rispetto e ammirazione - di una tradizione che su tale via individua il modo di rinnovarsi e di contaminarsi, dove la parola fondante sia innesto, talea, e non prelievo di una sua franta porzione che non darà più frutti una volta che sia incongruentemente inserita in un contesto totalmente estraneo, come accade di vedere in tanti artisti tibetani che vogliono introiettare le forme espressive  occidentali senza cercare la via della mediazione e della continuità. È la via, cioè, in cui il dualismo appare polverizzato dalla delicatissima danza della Yogini senza paura.

                                                                                       Rosa Pierno


mercoledì 8 giugno 2016

Furia "Iconici linguaggi", eBook, www.larecherche.it, 2016




http://www.ebook-larecherche.it/ebook.asp?Id=205

Un'articolata prova letteraria al cospetto delle opere d'arte costituisce l'ultimo lavoro di Marco Furia pubblicato in formato eBook dal sito www.larecherche.it, 2016. Entriamo subito nel vivo della questione, mentre, nel seguito pubblichiamo un testo su un quadro di Cézanne "Pere su una sedia" per mostrare il tipo d'indagine effettuata dal nostro.

L'immagine è più o meno realistica, ma presenta sempre aspetti molteplici; è composta da poliedrici e sempre diversi elementi, spesso anche contrastanti, tanto da far apparire in "perenne movimento", ciò che è statico. Se la realtà sembra non essere "assoggettabile ad alcuna rappresentazione", il quadro che "non si confonde con la vita", "le si avvicina indefinitamente", ma a volte è esso stesso a infondere realtà al soggetto ritratto, quasi a gettarvi una luce.

Porre le domande a un quadro, rilevare questioni a cui esso non può rispondere linguisticamente, fa convergere sul fruitore le questioni, quasi come in un contraccolpo, mette in primo piano la voce di colui che scrive. L'incerta attesa dei soldati in Fattori ("Soldati francesi del 59") diviene l'incertezza di colui che guarda il quadro. 

Assistiamo dunque, nell'esercizio di Furia, a una triangolazione impossibile fra quadro, realtà e spettatore. Dove ogni cosa sembra prodotta dagli altri due termini, ma in senso aporetico. Le domande, infatti, a tratti, acquistano il sapore di un nonsense: "quando vediamo cosa vediamo veramente?". I quesiti rimandano davvero e all'infinito l'uno all'altro. Ma il vero soggetto è lo scrittore, chiamato a rispondere, a fare affermazioni, a presentarsi sulla scena, e stavamo per dire nel quadro, quasi attuando il desiderio recondito che risponderebbe così agli sguardi che i soggetti dipinti ci rivolgono.

La pittura diviene importante quando riesce a "dipingere qualcosa che, pur non essendo oggetto in senso stretto, esiste". Ma il problema è che risulta  impossibile toccare sponda su un tavolo da biliardo con superficie concava. La descrizione del quadro da cui Marco Furia si diparte non basta ad ancorare la risoluzione a una sola delle tre sfere sul tavolo. Anzi, spesso la chiave psicologica della descrizione serve solo da apertura per la messa in gioco del fruitore che si appoggia sempre al reale coinvolgendo la sfera linguistica: "I linguaggi, talvolta, possono essere anche efficacemente taciti", in ogni caso, onnipresenti.

È lo scrittore stesso a indicarcelo: "L'autentica valenza estetica non è fine a se stessa, sicché un segno in grado di farsi specifico idioma artistico conserva in ogni modo la propria natura comunicativa", anche se vorremmo aggiungere che il significato dei quadri non si risolve nel messaggio comunicato. Spesso si rimane sorpresi dal fatto che l'immagine per Furia sia volontariamente priva di risposte: "A questo interrogativo l'artista non risponde" (in Edmund Ruscha); "Ancora domande prive di risposte" (in Giorgione).

In tal senso, il tentativo di far parlare il quadro è affidato a risposte che nascono nell'osservatore come se egli, grazie a questi esercizi di lettura, si trovasse all'interno di un laboratorio privilegiato in cui non ci fossero elementi disturbanti, e si sa come la realtà con la sua complessità può esserlo! Non che la fantasia, ad esempio, la si ritrovi solo nell'arte e non nella realtà, ma è la realtà che Furia vuole raggiungere. Realtà tutta linguistica!



                                                                                     Rosa Pierno