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giovedì 18 luglio 2013

Gabriella Drudi “Nunzio Di Stefano” Spatia Books, 1981


“Per seguire Heidegger. Nel ghetto di un linguaggio vastamente geologico, che designa lo spazio un cosmo enigma, sperdimento d’inizio, eppure inesplicabilmente disposto a distinguersi da cose sinonime e diverse, una duna, un daino, un’oasi, un maniero, tutte le immensurabili esigue spoglie del suo essere stasi e un universo latente, quegli spaesati e inquieti addensamenti o solitudini che il tempo tocca e scioglie, e se ne dà un movente, uno scopo, una ragione, giacché qui dove codesto incastro ininterrotto e inerte si frantuma qui appunto si addita e si lascia dire”.

Mentre Grabriella Drudi segue Heidegger, noi seguiamo lei, dopo tale incendiario incipit, in una serie di incalzanti corollari, designanti uno spazio apparentemente privo di segni e inaccessibile ai sensi. Azzerata ogni possibilità di riconoscere in esso una direzione, un verso (ammesso che abbia espansione) ma, in fondo, se attributi cartesiani debbano necessariamente qualificare l’essenza,  senza di essi sparisce anche ciò che la caratterizza (il peso, il colore, la temperatura). Pertanto il verso deve necessariamente inerire alla forma plastica che nello spazio s’accampa.

Lo stesso Heidegger vi si deve arrendere: lo spazio riusciamo a immaginarlo solo con i corpi che lo occupano e fosse pure scatola vuota gli dovremmo comunque attribuire pareti, infittendo il buio lungo i suoi bordi. No,  lo spazio riusciamo a immaginarlo solo con i corpi che lo occupano. Ma anzi, no, anzi “Perché ciò che dello spazio pare il più proprio, nel suo manifestarsi da se stesso nascente, si dà sospetto e irrisorio all’incontro con l’arte, che ripetutamente ne cancella e inventa i lineamenti incogniti, mentiti e plurimi”. Ecco è l’arte che rende appieno lo spazio! E’ l’arte soltanto, diremmo, che è in grado di visualizzare lo spazio, anche negandolo, anche indicando dimensioni non immaginabili, oltre che “il silenzio, quale si dispiega a partire dai pianeti melodici di Melotti”. Non è forse vero che è la storia della scultura quella che infilza le definizioni più ricche o paradossali dello spazio?   A centinaia di migliaia: una per ciascuna opera. Che lo incarna? Ne mostra gli scivoli, le pendenze, le multiple superfici sfreccianti in mille direzioni, che lo ingloba e lo intrappola.

 Ma ritorniamo a questo straordinario testo di Gabriella, che mentre leggiamo letteralmente ci prende la mano. E quanto amiamo quel suo “Può darsi”, in esergo all’elenco monotematico dello spazio compilato da Heidegger! Tant’è che già Gabriella se n’è stancata. Avida e inesausta lettrice, esperta in mille e una materia, afferra i materiali e li valuta, ne verifica la tenuta rispetto all’uso che ne vuole fare, li fa esplodere e, scontenta, crea il proprio fantasmagorico vocabolario forgiando le definizioni che urgono alla critica artistica.
   
Heidegger: appena un pretesto per mettere a fuoco le opere di Nunzio Di Stefano: “Quando disarma la scultura della sua forza di gravità, Di Stefano, e la libera del peso delle cose alla luce del giorno, quando impedisce la separazione dei lineamenti invadendo la figura fratturata di colore liquido, grigiattolo, che in vasto allagamenti e maree di gocciolature si deposita, non fa che ricondurre la forma incorporante il luogo, e la sua fonda contrada, alla levitazione stagnante della memoria e del sogno”.

Esistono spazi che le parole della Drudi sanno trarre come epifanica rivelazione dall’osservazione delle opere: dall’effetto illusionistico che non si fida dell’ottico poiché sdoppia e balugina senza fissare a quello di pura parvenza, di oggetto contenitore, di tana, di essere-calco, maschera o scudo e impronta. “Luoghi, dunque, che scrutano al fondo, al non-limite, oltre la soglia, nelle bolle di melma dell’immemoriale”.

E qui riporto una parte del brano che io crederei scolpito nella roccia della memoria universale se esistesse una verità univoca dell’arte: “L’amore per l’arte precede l’evento creativo, così accade. Per ognuno che si fa artista l’arte del passato si riaccende fantasmatica e intima come le stanze dell’infanzia. Nel ricordo, nello smemoramento, nel rifiuto, nella vicinanza e nei sensi di altre opere l’artista pone in opera il proprio evento, che è nuovo perché non conseguente, non logico, ma individuo dischiudersi dell’esserci”. 

Apparterranno a questo dischiudersi le opere di Nunzio Di Stefano a cui Gabriella riferisce una colata vivida di verbi: ‘bagnare’, ‘illiquidire’, ‘oscurare’, ‘sciogliere’, ‘riemergere’, ‘colare’, ‘disfarsi’, alfine “lasciando che la scultura si dia nel suo più autonomo e guidato farsi, e nello zelo degli attrezzi”. Anche se Gabriella Drudi registra il doppio sembiante dell’opera d’arte: “Una simile forma dovrebbe resistere a metafore che accolgono il corpo, l’umano, ma la trasposizione è inevitabile non appena il luogo che la scultura determina si assume intima evocazione di vaste scomparse”.


                                                                            Rosa Pierno

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