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martedì 15 gennaio 2013

Bruno Galluccio “Verticali”, Einaudi, 2009


C’è un respiro di mare nel libro di Bruno Galluccio, Verticali, Einaudi, 2009, un respiro che va e che viene, che porta dappresso e risospinge lontano ciò che è trascorso, ma che non è ancora finito, e ciò che ha avuto termine e non se ne è andato definitivamente. Così il discorso poetico si rifrange continuamente su una battigia pullulante di immagini e ricordi, di frasi che ancora riverberano fra lustri, reperti appena riscoperti. Tuttavia, non ascrivibile interamente alla pura sfera dell’io lirico, giacché il verso di Bruno Galluccio, in questa tarda quanto feconda opera prima, così ricco di aromi e insenature, è anche discorso matematico, allude alla sfera scientifica. La vena umanissima di questo poeta non si dispiega mai al di fuori della verifica sul proprio modo di vivere che è propria della filosofia greca e che aveva come obiettivo la costruzione di un dialogo intorno a concetti di cui, se non si potevano dare definizioni assolute, si potevano però disporre su un piano le ragioni, motivarle, creando adesione intorno alla propria visione. Modo di vivere che, se tendeva alla saggezza senza mai raggiungerla pienamente, dava luogo anche a un’attività contemplativa.

quando dicevo suono
intendevo dire piuttosto la fine del suono
quando in sé ricade
e ciascuno nella sua separazione lo vede
tramutarsi in mancanza
e si esercita allora in sottrazioni
e ammette i limiti del corpo

ma quando dicevo vento
intendevo davvero vento
con tutto il nero e le rotazioni che conduce
e pure intendevo il segno polare
capace di versare sguardi nel cielo improvviso
con la domanda ancora incompleta
ai piedi di alture incavate

I due tipi di discorso, quello analitico, geometrico e quello relativo all’esistente, alla sfera soggettiva, vengono tenuti costantemente sulla graticola in un confronto diretto che non li vede mai fondersi. La distanza mantenuta aperta come lame di forbici divaricate serve a non perdere lucidità analitica e a non rinunciare alla contemplazione immaginativa come, appunto, accade nella filosofia antica.  Non a caso è presente nei versi anche la forma dialogica: un costante riferirsi al tu, al noi, per arricchire la visione che altrimenti non includerebbe anche le posizioni opposte. È nel dialogo che, infatti, Galluccio tende a costruire relazioni, legami tra le contrapposte sponde, che moltiplica i trapassi, i passaggi, tra la scienza e la psicologia, tra la ragione e la morale: “e guardi il polpastrello e il viaggio / dei suoi atomi / dal big bang a questa zattera coerente”.  I meccanismi di una ragione che si accampa con la sua capacità analitica e di una poesia capace di introdurre alla via contemplativa sono fatti sfrigolare l’uno contro l’altro da Galluccio come componenti dalle  quali non è possibile separarsi al fine di costruire il quadro del nostro stare al mondo: “i treni accadono precisi / oltrepassano il fondo della retina / e proseguono lungo le domande delle mappe // noi restiamo muti vapori sui vetri”.  

Ma il poeta napoletano perlustra anche il regno dell’estetica, della sinestesia, dove le cose se non scambiano la propria essenza, condividono, però, alcuni attributi: “Ecco c’è l’acqua / che scorre verso il suono limpido / e una luna aperta  dispiega la sua diffusione”. In un inclinare verso gli aspetti delle cose più aporetici: “Il mondo si presenta  a noi / che acconsentiamo a deporre il coltello,  / a riconoscere la notte / come pura assenza di sole”, Galluccio si addentra nelle pieghe e nei vapori, nelle mobili percezioni, accettando la sfida delle apparenze. Fino al punto che il suo stesso io  viene travolto: “E così non mi riconosci?”. Anzi più affonda lo sguardo nelle cose, più avverte di perdere la presa, ma questo è anche il modo con cui afferra ciò che più sfugge alla presa razionale: “Nel silenzio / l’universo torna a riflettersi in se stesso / a immaginarsi”. È questo il modo con cui s’insedia nel movimento oscillatorio delle contraddizioni, della paradossalità del proprio esistere, corpo compreso, della cifra del vivere.  

E’ questa finale commistione ad essere rappresentata in particolare nell’ultima sezione dedicata a “ George Cantor matematico”,  in cui tutto è presente: idealità, corpo, concetti, sensazioni, in una sorta di vento che vorticizza ogni elemento creando la persuasione di uno sradicamento e di un perturbamento, a costituire l’approdo finale del viaggio di Bruno Galluccio, il quale non congegna false speranze: “il discorso cade rialzandosi / i giochi completi  sono nuovamente disfatti / il quesito viene gettato sempre più lontano”, riproponendo la lezione socratica.  Ma, anche, che approda, nel verso con cui concludiamo questa lettura: “potrei farmi pantano e sonda che pesca / la conchiglia che accoglie tutte le acque” , che per essere un riferimento mitico, un ritorno all’origine, non fa che riproporre una nuova ripartenza, la quale s’innesta nella spirale vichiana, come l’esegesi di Croce ha indicato, ogni volta inglobando un nuovo territorio, ogni volta allargando il proprio orizzonte.  

  
                                                                Rosa Pierno

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