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domenica 29 gennaio 2012

Marco Furia su “La manomissione delle parole” di Gianrico Carofiglio, Rizzoli, 2010

La costruzione del mondo

Le parole costituiscono il nostro modo di vedere il mondo e, dunque, di entrare in relazione con esso: questa la condivisibile tesi sostenuta da Gianrico Carofiglio nel suo “La manomissione delle parole”.
Un testo chiaro, per nulla ambiguo, ricco di fecondi richiami tratti da autori antichi, moderni e contemporanei, di citazioni da testi filosofici, saggistici, letterari, poetici: per Carofiglio il linguaggio è, assieme alla vita, tutto ciò di cui l’uomo, sulla Terra, può disporre.
Ma non v’è dualismo, perché, con Wittgenstein, la lingua è ritenuta forma di vita: le nostre maniere di prendere in considerazione il mondo (e noi stessi) non si limitano a influire sul nostro modo di vivere, bensì sono il nostro modo di vivere.
Si legge alle pagine 19 e 20:
“Nel tentativo di individuare la ragione dell’altissimo numero di suicidi registrati a Thaiti, Levy scoprì che i thaitiani avevano le parole per indicare il dolore fisico ma non quello psichico. Non possedevano il concetto di dolore spirituale, e pertanto quando lo provavano non erano in grado di identificarlo. La conseguenza di questa incapacità, nei casi di sofferenze intense e (per loro) incomprensibili, era spesso il drammatico cortocircuito che portava al suicidio”.
Ora, ci si può chiedere, era l’assenza di quel concetto a provocare una certa situazione o viceversa?
Evidentemente, il modello causa – effetto, almeno inteso in senso rigido, qui non opera, sicché il fenomeno è leggibile nei due sensi.
Siamo di fronte a una connessione, non a un rapporto di tipo meccanico: non applichiamo l’idioma all’esistenza, ma lo viviamo assieme a essa.
Proprio perché non è morto segno, la lingua può subire modifiche e, in certa misura, risultare flessibile:
“I contrari sono molto meno ovvi, vincolati e meccanici di quanto pensiamo: il contrario di felicità è, certamente, infelicità. Basta aggiungere, come si dice, un prefisso. Per me, però, ad esempio, il contrario di felicità è un altro: è la noia”.
Insomma parlare è costruire il mondo:
“Scrivere è essere qui”.
Le parole, tuttavia (e purtroppo), possono essere manomesse, ossia deviate dal loro significato, come si può riscontrare dalla presenza di espressioni verbali usate non proprio nella maniera più legittima (ad esempio, da certa propaganda politica).
Talvolta, poi, con la scusa di dover rispettare certe esigenze di carattere tecnico, si pongono in essere successioni di vocaboli astruse, oscure, quasi incomprensibili: è il caso, spesso, anche se non sempre, del linguaggio burocratico o di quello giuridico.
Il Nostro, inoltre, tratta, uno per capitolo, cinque specifici argomenti: vergogna, giustizia, ribellione, bellezza, scelta.
In conclusione, mi preme riportare il brano seguente:
“La bellezza non è dunque un ornamento. È una forma di salvezza e insieme una categoria morale. È il sintomo, o forse, più precisamente, il farsi visibile e concreto del bene morale”.
Se il buono è anche bello, anzi, può essere soltanto tale, le parole mai possono coincidere con atteggiamenti inclini all’indifferenza, poiché l’esercizio della lingua implica necessari esiti di una bellezza intesa, in senso etico, quale correttezza, giustizia, onestà.
Il distacco non è aspetto tipico della prassi linguistica, in quanto quest’ultima, vera e propria scelta, è frutto di volontà di comunicare.
George Orwell, perciò, a ragione “mostrava come combattere contro il cattivo linguaggio significhi, anche, opporsi al declino della civiltà”.

                                                                                   Marco Furia

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