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domenica 22 gennaio 2012

Frank Lloyd Wright “Le stampe giapponesi. Una interpretazione” Electa, 2008

Inauguriamo, con il testo di  Frank Lloyd Wright una nuova rubrica sull’arte e la cultura orientale.   


In una splendida edizione, l’Electa propone il testo di Frank Lloyd Wright “Le stampe giapponesi. Una interpretazione” che le postfazioni di Francesco Dal Co e di Margo Stipe s’incaricano di collocare storicamente. Accertati contatti con l’architettura giapponese grazie all’Esposizione Colombiana di Chicago del 1893  e con alcuni studiosi (tra cui Fenellosa) che lo iniziano allo studio dell’arte giapponese e i ripetuti viaggi in Giappone sulle tracce delle xilografie, irrorati anche finanziariamente dai collezionisti di Boston, scandiranno i rapporti di Wright con un serbatoio di ispirazione che alimenterà l’intera esistenza del geniale architetto.

Il testo scritto nel 1913, in occasione di una conferenza, tenta di discernere i punti focali dell’interesse – vera e propria ossessione, come lui stesso afferma – che le stampe giapponesi rivestono ai suoi occhi. E’ una razionalizzazione con intenti pedagogici e siamo certi che non testimonia nemmeno la punta dell’iceberg dell’influsso che ha ricevuto e restituito attraverso le sue opere architettoniche.

Dapprima Wright effettua alcune considerazioni generali relative all’arte riguardanti il legame fra bellezza e morale (“Per esperienza sappiamo che la bellezza è il più elevato insegnamento morale”) e quello fra l’arte e il simbolo (“il valore simbolico della forma”). Ma, qualche pagina dopo, l’architetto restituisce alla bellezza valore autonomo e indipendente: “La vera essenza dell’opera d’arte risiede nella bellezza essenziale e assoluta presente nel risultato creativo dell’artista, più che in qualsiasi altro significato materiale o senso estrinseco essa possa avere”.

Egli tenta di  trovare l’idea soggiacente dell’arte giapponese, “ciò che Platone chiamava idea eterna” e la ravvisa nella “‘struttura’, la quale è in primo luogo la forma pura, organizzata, modellata e composta per ‘costruire’ l’idea, mentre la geometria è “la grammatica della forma”. Ma per Wright “le idee esistono in virtù della forma. La forma non può essere mai disgiunta dall’idea; i mezzi devono adattarsi perfettamente al fine”, finendo col riconoscervi un’idea di armonia che diviene sinonimo di organico (“proprio come ogni cosa che cresce in natura") e di verità: “troveremo sempre e soltanto quella linea o quella scelta compositiva che sono assolutamente necessarie”. Risuonano in queste parole, sia la posizione di Goethe sia quella successiva di Cassirer, il quale, appunto, non separa forma da materia, operando questa diversione anch’egli a partire da Platone.

Tuttavia, il motore propulsivo del testo, il corpo a corpo che Wright affronta con le stampe giapponesi si può individuare nel tentativo di scoprire le specificità di un’arte di estrema eleganza per cavarne il segreto della sua peculiare bellezza. Non è un tentativo esente da cadute poiché la comparazione che egli effettua con l’arte occidentale viene fatta a scapito di quest’ultima, in maniera faziosa e irricevibile: “Mentre l’arte giapponese è poeticamente simbolica, quella occidentale tende a un realismo che finisce per essere pateticamente letterale”.

In conclusione, sebbene Wright cerchi di leggere l’arte giapponese con le categorie del pensiero occidentale, egli di fatto  rintraccia le regole che innervano l’arte giapponese: l’uso del piano, senza chiaroscuro, il colore che ha valore strutturale, le delicatezze indicibili delle tonalità cromatiche, la preziosa qualità decorativa. E queste sono anche alcune delle qualità che ritroviamo plasticamente trasposte nei suoi capolavori architettonici, in particolare si veda il suo  straordinario Imperial Hotel a Tokyo.

                                                                                        Rosa Pierno 

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