Nel corso del 2010, sono stati dati nuovamente alle stampe, con il titolo di “La libellula e altri scritti”, alcuni importanti testi di Amelia Rosselli.
Questa nota riguarda il poema “La libellula” (1958) e alcune poesie tratte da “Serie ospedaliera” (1963 – 1965).
Colpisce subito l’imponente quantità di materiale, risultato di un’intensa attività d’accumulo, percorsa dal dolore, reclamante sbocchi espressivi: in siffatto frangente, l’aspetto stilistico viene a costituire non mero veicolo, bensì tentativo di vera e propria coincidenza.
─ Se dico così, è così ─ sembra intendere la poetessa.
E se è così, aggiungo, lo è per tutti.
Insomma, la presenza fisica delle parole implica, assieme, la vita dell’autrice e dei lettori.
Esprimono, davvero, tendenza all’universalità i versi
“… la mia volontà sia regina delle
stelle e delle notti”.
Ora, come appare evidente, una volontà regina del cosmo supera qualunque umana possibilità.
Non siamo in presenza, tuttavia, di abnormi proiezioni di un estremo soggettivismo (o, in ogni caso, non si tratta unicamente di questo), ci troviamo, piuttosto, al cospetto di una sorta di caparbio talento che nella costruzione di un certo mondo poetico vede non (solo) l’affermazione del sé, ma la stessa possibilità di vita propria e altrui.
Ecco perché
“… non ce la faccio più
a guidare il rinoceronte”
è pronuncia lucida, franca, eppure tale da non provocare desistenza: la nostra poetessa tenterà di guidare quel “rinoceronte” sempre, fino alla fine.
Frutto di vicende esistenziali tormentate, questa poesia non manca di peculiare leggerezza: l’immensa congerie degli argomenti non impedisce ad Amelia di posarsi (come fa una farfalla o, forse, una libellula, quasi scegliendo talune corolle) su certi tratti, anche minimi, insistendo nel mostrarne l’importanza, l’incidenza su un tutto esistente proprio in virtù dei particolari.
C’è sofferenza in questi gesti?
Anche.
Se la presa d’atto (esito di non facile percorso) porta ad ammettere la presenza di fiducia, parole come
“… La miscela è troppo
fine: il ricordo è troppo tagliente: l’incastro
è troppo vivido”
manifestano, senza dubbio, dolorosa difficoltà.
Una forma di consapevolezza conduce, dunque, al tormento?
Soltanto in parte.
Quella “miscela” “troppo fine”, quel “ricordo” “troppo tagliente” e quell’”incastro troppo vivido” rendono palese un acceso desiderio di comprensione in cui è da cogliersi un dato non negativo: la vita non sta là, fuori di noi, in attesa di (pur utili) giudizi, poiché è l’esserci, qui e ora, l’àmbito decisivo.
Un àmbito nel quale saremmo coinvolti, in ogni modo, anche qualora fossimo inclini ad amare lo spettacolo della natura più che lo svolgersi dello sviluppo umano:
“… oh io amo più forse
le colline e le fresche brezze e le verdoscuro
pinete, che i giganti passi dell’uomo”.
Cosa resta, alla fine?
Resta la prova di una straordinaria costanza nel percorrere, finché possibile, un arduo itinerario, resta la conferma di una risoluta tenacia nell’impegnarsi a esprimere se stessi scrivendo sulla pagina le parole giuste, adatte, ossia quelle che non tradiscono perché non possono più farlo.
Marco Furia
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