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mercoledì 8 giugno 2011

“Del contemporaneo. Saggi su arte e tempo” Bruno Mondadori, 2007

“Del contemporaneo. Saggi su arte e tempo” Bruno Mondadori, 2007 è una collezione di quattro interessantissimi testi di Jean-Luc Nancy, Georges Didi-Huberman, Nathalie Heinich e Jean-Christophe  Bailly sul tema dell’arte contemporanea presentati da Federico Ferrari, il quale introduce gli interventi cercando di presentare le problematiche connesse a tale definizione. Contemporaneo, infatti, non ritaglia più una porzione temporale riguardante l’attualità, ma una porzione specifica dell’arte: quella che non fa più riferimento al concetto di arte tradizionale.

Jean-Luc Nancy rileva che per la prima volta nella nostra epoca, non tutta l’arte prodotta attualmente viene etichettata come contemporanea,  e immediatamente a ridosso di come esista la necessità di distinguere ciò che è arte da ciò che non lo è. E nel definire l’insieme  delle opere per cui concordiamo si possa utilizzare la parola arte senza ulteriori distinguo, Nancy dà una definizione elastica e flessibile, adattissima allo scopo. Conosciamo l’impossibilità di definire univocamente l’arte e di come anzi proprio in questa impossibilità risieda la sua ricchezza, ed è su questo appiglio che Nancy colloca la possibilità di comprendere se l’oggetto di fronte a cui ci troviamo appartenga o meno al dominio artistico. Ci troviamo di fronte a un’opera d’arte quando il senso formato dall’arte “permette una circolazione di riconoscimenti, identificazioni e sentimenti, senza però fissarli in un significato ultimo”.  La polisemia dell’arte è sfuggente: l’arte crea plurime possibilità di senso e dunque dà forma a un mondo in cui il significativo non è stabilito né chiuso. Mentre assistiamo a un fenomeno inverso per l’insieme che racchiude le opere definite come arte contemporanea: esse sono veicolo di un significato univocamente determinato, si riducono a quello, azzerando la polisemia. Ecco il perché di quella fastidiosa sensazione che percepiamo dinanzi a opere il cui esplicito e inflessibile senso ci fa nascere un dubbio sulla loro valenza artistica. Questa oscillazione - domanda che si ripropone dinanzi a ogni nuova opera che cada sotto il nostro sguardo - è legittima, perché ogni volta dovremo considerare l’opera chiedendoci quali elementi un’opera d’arte metta in gioco. Non tutte le opere di arte contemporanea sono da escludere dall’insieme delle opere d’arte. Sarà dunque proprio l’interrogazione sui possibili sensi che scaturiscono da un’opera a farci comprendere quando siamo di fronte a un prodotto artistico o meramente comunicazionale.

E non è un caso che Didi-Huberman inizi la sua ricognizione a partire dalla durata, “dal rapporto tra storia e memoria, tra presente e desiderio”, cioè dai contenitori del plurimo senso, visti in antagonismo con la consuetudine. Le immagini consuete non sono in grado di costruire una durata. E in mancanza della durata siamo nel regno dell’artificio del linguaggio mediatico. Nell’analizzare l’opera di Pascal Convert, il filosofo afferma che ci troviamo dinanzi a qualcosa di cui tutto, materia, luce, significato resta non immediatamente traducibile in un senso stereotipato: tutti i suoi segni sono ambigui.  Dobbiamo essere noi a ricostruirli. Pazienza, scoperta, interrogazioni, dubbi si succedono instancabili muovendo e spostando tutti i paletti percettivi a cui eravamo abituati. In particolare, per l’opera di Constant “ Sans titre (inspirée de Veillée funebré au Kosovo), Didi-Huberman fa riferimento al libro di Lessing “Laocoonte” che nega alle arti plastiche la possibilità di esprimere il dolore poiché “mostrare all’occhio il massimo vuol dire tarpare le ali alla fantasia”. Mentre l’opera di Constant sembra superare questo limite. Come mai?  Sarà innanzitutto necessario distinguere tra la fotografia di Georges Mérillon (da cui Constant è partito per realizzare la sua opera) e l’opera di Constant, tra la storia del fotogiornalismo di guerra e l’opera appartenente all’ambito della storia dell’arte: cioè tra i loro contesti specifici. Il filosofo cita Deleuze: “E’ evidente che l’immagine non appartiene al presente” e ancora “I rapporti temporali non sono visibili nella percezione ordinaria, ma lo sono  nell’immagine, dal momento in cui essa è creatrice. Essa rende sensibili e visibili i rapporti temporali irriducibili al presente”.    Siamo dunque nell’ambito della durata e dove c’è storia, c’è montaggio. Warburg ha studiato le espressioni del dolore nell’opera d’arte. E allo stesso modo Didi-Huberman vuole porre l’una accanto all’altra la fotografia di  Mérillon e l’opera di di Costant per trovare in questo atlante delle lamentazioni le relazioni formali, le circolazioni temporali, le ripetizioni, gli arresti, il ritmo, attraverso cui “la memoria è per così dire l’organo di modellizzazione del reale, che può trasformare il reale impossibile  e il possibile in reale”. Ma affinché questo accada è necessario rigettare ogni genericità e costruire “la durata attraverso un montaggio regolato di immagini singole prese nell’ampio rizoma delle proprie relazioni”. Anche in questo caso, dunque, la contemporaneità va esperita, ricreata, setacciata: è da essa che nascono diversi rivoli che poi prendono differenti direzioni, in relazione alla modalità di restituzione.

Con la volontà di aprirsi un varco nella confusione di definizioni e di approcci critici, la sociologa Nathalie Heinich, anch’ella constatando che l’arte contemporanea non definisce un periodo temporale, ma un genere, cerca di aprire un varco nella selva, aggravata dal fatto che oggi “ non vi è una logica normativa continua, che stabilisce gradi di qualità estetica, ma un tipo di logica classificatoria discontinua, che determina posizioni di appartenenza o esclusione” ove l’”illegittimità degli uni è, dunque, la legittimità degli altri”. Utilizzando le definizioni di Thomas Kuhn, elaborate per il dominio scientifico, la Heinich afferma che quella attuale si presenta come una “crisi di paradigmi”, ove però sono ben tre, e non una, le categorie dell’arte: classica, moderna e contemporanea. L’arte contemporanea “si basa sulla trasgressione sistematica dei criteri artistici”. E ciò “la distingue radicalmente dall’arte classica, ma non da quella moderna, nella quale si era già sperimentata una serie di trasgressioni”. Per la Heinich tale ripartizione comporta dei vantaggi, se li si consideri non escludentisi l’un l’altro”, ma “come generi, che coesistono senza che nessuno esiga legittima esclusività”. Proprio l’esistenza di tali generi eviterà la confusione tra “i criteri generici (che stabiliscono l’appartenenza all’arte moderna o contemporanea) con quelli valutativi (che all’interno di ogni genere, determinano la maggiore o minore qualità delle proposte artistiche)”. In questo modo lo studioso potrebbe “trasformarsi in esperto, che consiglia la definizione di questi paradigmi come generi e autorizza, allo stesso tempo, il salto da una norma univoca a una pluralistica, sostenuta dalla dissociazione tra criteri generici e criteri di valore”.

L’ultimo testo critico è di Jean-Cristophe Bailly, il quale affronta la durata del tempo e il concetto di contemporaneità così come esso è catturabile tramite fotografia, la quale ha uno statuto speciale poiché la fotografia coglie molto più di quanto noi stessi percepiamo. Il contemporaneo, così come emerge dalle fotografie, è “sospeso e adagiato tra quello che non è più un futuro e quello che non è ancora un passato. Non appartiene,  dunque, alla storia dell’arte, ove si distinguono le opere  con una logica cronologica. Essa appartiene a un genere autonomo, proprio della fotografia, la quale è soprattutto un effetto di rottura: è sempre fatalmente contemporanea a quello che si vede. E inoltre, essa se s’insedia nel registro dell’esattezza è anche una specie di allegoria dell’inimitabile, in cui magico ed esatto coesistono. Ogni fotografia “è assimilabile a un tuffo assoluto nella materia del tempo, l’unica materia senza spessore di cui ci è dato avere esperienza”.
Ove si vede come Bailly tenda a non dare rilievo alla problematica della contemporaneità sollevata dagli altri pensatori, ma tenda a definire per la fotografia un concetto autonomo e specifico di contemporaneità e a donare alla fotografia un ambito di ambiguità che però caratterizza per gli altri relatori una caratteristica propria dell’arte.
Rosa Pierno

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