Un gruppo di versi, nella raccolta Quell'andarsene nel buio dei cortili (Mondadori, 2010) ci trasmette in modo ellittico ma tutt'altro che ambiguo la visione del mondo di Milo De Angelis: "Restammo vicino al passaggio a livello./ Tu perdevi i tuoi cieli. Come rispondere/ all'immenso? Eravamo una frazione della voce,/ sillabe disperse". Dove a colpirci, entro l'opposizione di fondo piccolo/ grande, alto /basso, è il dato di partenza (il trovarsi in un luogo fisico, l'essere individui parlanti nella precarietà), che muove da un'ipotesi realistica ma è presto messo in relazione con l'imponderabile. Come leggiamo in altri versi, la nostra vita sembra infatti consistere in un rapporto conflittuale tra la contingenza che ci vincola (siamo creature frammentarie, in perdita d'assoluto, "dispersi ai bordi della terra") e l'agire misterioso, aleatorio, di un'entità illimitata che investe ogni segmento del quotidiano. Non dal divino e dalle sue epifanie è segnata tale immensità, bensì dal vuoto e dall'assenza (ontologica e storica) di un evento fondante o di un senso riconosciuto. Essa dà forma a uno scenario enigmatico - posto in noi e fuori di noi nello stesso tempo, quasi "una linea verticale" vicina all'anima - dal quale partono segnali perturbanti suscettibili di trasformarsi in allucinazioni (qualcosa che assomiglia all'unheimlich freudiano). Il destinatario li registra nel cerchio ristretto e ombroso del suo metaforico "cortile" e del suo isolamento domestico, ma direi soprattutto nei territori dell'accidia epocale, sordidamente fautrice di violenza anche se espressa quasi unicamente per cenni e allusioni, che lo circonda. Sono le frecce o le furie di un tempo non risanabile: "una furia/ che scende verso l'oscuro e dilaga/ tra i muri passeggeri e sgretolati/ dove ognuno è solo il suo andarsene". L'oscurità ci tiene in ostaggio, il nostro difenderci assomiglia a quello delle talpe, affidato all'inconscio della tana con tutti i suoi reagenti fantastici, eppure non mancano momenti di sollievo e di tregua nel libro, allorché, ricuperando per un attimo la condizione infantile o certi ambienti familiari, e ridando fiducia alle risorse del canto e dell'epopea, possiamo ascoltare "il cielo che nasce in ognuno di noi".
De Angelis sa che, come la poesia contemporanea ha attestato innumerevoli volte, esistono zone dell'esperienza negate alla rappresentazione piena ("Non esiste un cerchio in cui fermarsi, un nome/ pieno da ribadire sulle labbra"), rischiarate perciò solo da brevi ed effimeri bagliori e descrivibili attraverso percorsi enunciativi crivellati, cosparsi di parole in frantumi. "Sillabe disperse", la "sillaba che ci chiama dai sotterranei", "un impasto di frasi sull'asfalto", dove il paradigma rimane quello, vero e proprio sigillo di un'età culturale non ancora compiuta, della "storta sillaba" montaliana.
L'investimento obliquo della parola, invitata da De Angelis a condividere "le oscure cantine" della condizione esistenziale, corrisponde a un esercizio verbale che si affida alle seduzioni dell'ellissi e alle ripetute modifiche di prospettiva, fino a ottenere accostamenti insoliti di immagini e incrinature dell'ordine spazio-temporale. Di questo stile rappresentativo spaesante, talvolta visionario ma che sa anche fare appello alla concretezza (una concretezza di secondo grado, per intenderci) , De Angelis è stato un maestro soprattutto nelle opere precedenti, come Millimetri (1983) e Distante un padre (1989). Nella presente raccolta i toni appaiono addolciti dal ricorso a una dizione meno aspra, incline a una certa armoniosità, come si può rilevare dalle Canzoncine che costituiscono l'ultima sezione. Ma questo va messo sul conto di un'evoluzione naturale. Raggiunto il massimo punto di tensione, il linguaggio poetico non può che distendersi, ripristinare configurazioni più compatibili con l'espressione quotidiana.
Gilberto Isella
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