Che cosa accade quando la materia trasforma il colore, quando l’azione che si effettua sulla materia porta con sé un’alterazione inaspettata del colore e quando, inevitabilmente, un tocco o una patina o un’area di pigmento opera una “delocalizzazione” della sostanza, una diversa percezione della stessa, è quello che constatiamo osservando le ultime opere di Jonathan Hynd. L’osservazione di tali quadri equivale ad assistere a un duello fra materia/colore e costringe a non parteggiare, a non propendere, a essere testimoni inattendibili sulle sorti dell’evoluzione e della metamorfosi che sulla superficie “ volumetrica” del quadro pure sono in atto. Volumetrica perché la base di legno o la tela ricevono uno o più strati di cartone incollato su cui poi viene parzialmente steso del gesso, spesso a formare una cornice sui bordi, dove alcuni listelli vengono asportati dagli strati oppure perché è un sottile solco centrale a scavare il cartone creando immantinente la sensazione di stare di fronte a un libro carbonizzato, fossilizzato, di cui la scrittura che è appena riconoscibile come tale, sorta di alfabeto per ciechi, avendo la caratterizzazione di esservi incisa, è archetipo di ciò che resta di una millenaria civiltà scomparsa, la cui leggibilità è chimerica quanto il nostro voler penetrare in ciò che è, appunto, andato perso.
Che Jonathan sia artefice sopraffino, avente eccellente capacità di estrarre dai materiali più poveri siffatto potere evocativo è stupefacente per quel millesimo di secondo che resiste all’altra considerazione ancora più forte e pregnante: come da materiali così umili e da un colore così compromesso con la materia possano emergere sulla superficie dell’opera una duttilità e malleabilità delle componenti estetiche in tale grado da esaltare l’interazione coloristica, da sublimare il risultato dell’alchimia fra materia e pigmento e, a tal punto, da farci dimenticare del gesto e della consistenza materica, della tecnica e dell’intervento del caso. Il colore non ha funzione sussidiaria, né subalterna, sebbene la sua presenza transustanziata sia delicatissima parvenza, bagliore, accensione o spegnimento ottenuta tramite combustione. Esso viene trasformato dagli elementi materici: assorbito o espulso dopo essere stato ossidato o esaltato dalla compromissione con la colla, il caolino e il cartone. Ma è anche partecipante al processo in pari potenza tanto da trasformare la carta o la tela in lastra di rame o bronzo, in pagina incenerita o muro istoriato.
E, ancora, che tale impareggiabile risultato, e quanto più prezioso proprio perché nato da un porre se stesso senza dogmi precostituiti di fronte ai materiali e con l’introduzione del caso come componente imprescindibile dell’azione pittorica, porti con sé un ventaglio pressoché interminabile di analogie figurative è l’altro versante incomprimibile dell’arte di Jonathan Hynd. Colui che osserva il quadro diviene il sovrano del mondo figurale: dinanzi a siffatte opere ciascuno può attingere al proprio pozzo personale e innescare corto circuiti tra ciò che conosce e ciò che vede. Si dispiegano sulle tavole cartografie, cosmografie, piante di città, codici di programmazione, alfabeti perduti, libri carbonizzati, frammenti di porte bronzee, tavole di pece, fiancate di imbarcazione da cui la pittura si sta sollevando, muri scrostati. A tutte queste immagini fa da predella un senso di oggetto antico, rinvenuto, rovinato, il quale però conserva integro il suo valore evocativo: promessa di un mondo conoscitivo da potersi nuovamente recuperare. E in fondo che cosa chiede un artista a se stesso, durante l’operazione di creazione di un’opera, se non l’atto del rinvenimento? L’atto della scoperta di ciò che è sepolto in sé, di ciò che gli conferisce il ruolo d’artista, di demiurgo, di costruttore di mondi. E tutti da leggere, da decifrare, da sillabare. Tutti reperti del sé, strumenti per conoscere attraverso l’arte.
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